Presentazione degli Atti dei Convegni Internazionali sul Violino 1983 – 1987
Presentazione degli Atti dei Convegni Internazionali sul Violino
Anni
1983-84-85-86-87
da sin.:
Lorenzo Qualli, Quirino Principe, Gianni Drascek
Associazione Culturale “M° Rodolfo Lipizer”
Gorizia – Italia
ATTI CONVEGNI INTERNAZIONALI SUL VIOLINO
(1983-84-85-86-87) a cura di G. Drascek
Gioiosa Editrice – Sannicandro (FG) – 1991
PRESENTAZIONE
SALA DEL CONSIGLIO PROVINCIALE DI GORIZIA – ITALIA
15 OTTOBRE 1991
PROF. LORENZO QUALLI – Buonasera Signore, Signori, Autorità, amici, soci e
simpatizzanti del sodalizio Lipizer, vi ringrazio della vostra presenza a
questa cerimonia di presentazione degli Atti dei primi cinque Convegni
internazionali sul violino, che si sono svolti proprio in questa sede, concessa
dall’Amministrazione provinciale di Gorizia, negli anni 1983-1984-1985-1986-1987.
Questo per noi della “Lipizer” è un primo traguardo editoriale che ci
riempie di gioia: questa è una giornata di festeggiamenti ma anche un punto di
partenza per future e più ambite realizzazioni editoriali. Oltre gli Atti dei successivi
Convegni – settembre 1988-1989-1990-1991 – svoltisi parallelamente al Concorso
Internazionale di violino “Premio R.Lipizer”, ci sono anche gli Atti del
triennale Convegno internazionale sulla Liuteria, svoltisi negli anni
1984-1987-1990, e altre fondamentali opere musicali e pedagogiche del
concittadino Lipizer, che ci stanno particolarmente a cuore in quanto ancora
inedite e, proprio perché siamo continuamente stimolati in questa pubblicazione
da tutti gli studiosi del violino, dai pedagoghi, insegnanti dello
strumento,speriamo quanto prima attuarne la pubblicazione.
Sono trascorsi dalla scomparsa di Rodolfo Lipizer ormai 17 anni e nel 1990
l’Associazione a lui intitolata ha ottenuto un grande riconoscimento dal
Ministero per Beni Culturali e Ambientali con l’inclusione nella tabella
nazionale degli enti che svolgono servizi di rilevante valore culturale. Per
questo determinante risultato – dapprima morale e poi finanziario, in quanto è
previsto un finanziamento triennale – dobbiamo un sentito ringraziamento al
sottosegretario del Ministero del Turismo e dello Spettacolo, on. Luciano
Rebulla, che ci ha fatto pervenire un telegramma con il rincrescimento per la
sua assenza dovuta a improrogabili impegni di governo –
per l’opera di sensibilizzazione e di
promozione della nostra regione a Roma, luogo in avvengono le decisioni
importanti.
Noi, di fronte alla situazione ben
diversa di altre regioni, ci siamo fatti forti e con l’appoggio del
sottosegretario e con la nostra volontà siamo riusciti a a raggiungere questo
obiettivo – credo veramente importante –
che ha permesso di istituzionalizzare la nostra associazione e di
mettere in atto queste iniziative culturali, tali per il loro contenuto solo in
questi ultimi anni, dopo tanti anni di lavoro nella concertistica, con il
Concorso e il Convegno, per i cui Atti non si riusciva a reperire fondi
adeguati per promuoverne la pubblicazione.
Prima dell’intervento ministeriale, il nostro ringraziamento più sentito – lo
dico veramente di cuore – va a tutti gli Enti Locali: all’Amministrazione
Comunale – nel 1982 era Sindaco Antonio Scarano – quando nacquero Concorso e
Convegno, all’Amministrazione Provinciale di cui era Presidente Silvio Cumpeta,
che nello stesso anno appoggiò con un importante intervento le due
manifestazioni, alla Regione Friuli Venezia Giulia che con varie leggi, sia per
la cultura che per il Concorso e il Convegno, ha sostenuto le nostre iniziative
che si sono messe immediatamente in luce in campo internazionale: basti pensare
che sin dal primo Concorso i partecipanti erano di tre continenti e provenivano
da una ventina di stati ed ha avuto subito grandi risultati.
Il Convegno di quest’anno – per fornire ulteriori informazioni su questi ultimi
anni di attività – gode di nuovi sporsor, come la Cassa di Risparmio di Trieste
che ha concesso un sostanzioso intervento per il Convegno e per il Concorso, e
dell’operato di promozione dell’Assessore regionale sempre presente alle nostre
iniziative, che ne ha permesso il rafforzamento.
Questo IX Convegno, parallelo al X Concorso, ha visto per la prima volta
l’attuazione di una traduzione simultanea in quattro lingue (italiano, inglese,
francese e tedesco) e la presenza di 25 relatori di 17 paesi, i quali si sono
confrontati sul tema “L’estetica musicale contemporanea e la pedagogia del
violino”, alla luce anche delle nuove opere musicali edite di compositori
contemporanei viventi, fra cui quelle del Concorso stesso. Nel 1983 – nel I
Convegno di cui abbiamo qui gli Atti – è nata l’idea di promuovere una
letteratura violinistica contemporanea da includere nelle successive edizioni
del Concorso attraverso il brano d’obbligo scritto dal compositore Presidente
della Giuria, oltre a quello d’obbligo di Lipizer tratto dalla “Tecnica superiore
del violino” di difficoltà “ultrapaganiniana”, come è stata definita da alcuni
dei più agguerriti concorrenti dell’Estremo Oriente.
Come si vede, questo Concorso e
soprattutto questo Convegno hanno promosso la cultura musicale per mezzo dello
studio dei problemi inerenti il violino e l’apporto didattico e culturale dei
più illustri docenti mondiali, attivi nei più prestigiosi conservatori, scuole
e master-class internazionali. Questi Atti riportano la loro voce. Il primo
Presidente, il M° Giulio Viozzi, rimane in questo testo con le sue idee,
importanti per guidare il Concorso nei primi anni, rimangono Boris Goldstein,
J.P. Bernede e altri ancora. Sono state raccolte le voci di
nomi prestigiosissimi in campo
internazionale, che ci hanno lasciato gli ultimi desiderata per la scuola
violinistica, un testamento culturale, a cui si affiancano la vivacità dei
dibattiti e delle relazioni. Al professor Principe, comunque,
il compito di illustrare questo aspetto culturale
e musicologico.
Devo un grazie particolare, oltre che al
Direttivo, ai collaboratori e ai dipendenti, al prof. dott. Gianni Drascek che
ha curato con entusiasmo, competenza e spirito di totale volontariato questi
Atti. I testi sono stati ricavati da registrazioni su nastro, anche in lingua
originale tradotta dagli interpreti, cui va il mio ringraziamento. Pensiamo
inoltre di poter presentare gli Atti successivi in lingua originale con
traduzione italiana a fronte.
Un fatto che ci ha fatto proseguire nel nostro operato è stato, sin dal 1983,
l’alto Patrocinio del Presidente della Repubblica, il riconoscimento della
Federazione Mondiale dei Concorsi Internazionali di Musica, che ha sempre visto
con stima il nostro Concorso e il Convegno, gli stessi membri delle Giurie che
hanno definito come originale invenzione degli organizzatori della Lipizer
l’affiancamento al Concorso – esempio unico a dire dei giurati – di un Convegno
parallelo. Il riconoscimento del Ministero della Pubblica Istruzione che ha
dato il patrocinio al Convegno per la valenza degli studi annuali che vi si
svolgono e inoltre ha concesso un riconoscimento importante per tutti i docenti
di ogni ordine e grado: ad essi viene rilasciato una certificazione di
frequenza valida al fine dell’aggiornamento.
L’Associazione Lipizer non fa solo concertistica, non fa solo Concorso o
Convegno, ma sta promuovendo l’istruzione musicale: non va dimenticato che la
Scuola di Musica “Lipizer”, sita nella sede dell’Associazione in via don
Giovanni Bosco, comprende vari corsi strumentali, di teoria musicale, di storia
della musica, frequentati da un numero sempre crescente di studenti di ogni
età.
Non posso essere che soddisfatto a nome del Direttivo di tutti questi risultati
positivi e spero di trovare anche in futuro il sostegno degli enti pubblici
locali soprattutto, che sono stati importantissimi sul nascere della nostra
associazione e che sono anche oggi determinanti in quanto l’intervento
ministeriale, seppur cospicuo, non è sufficiente.
Un ringraziamento alla Gioiosa Editrice che oggi doveva essere qui
rappresentata dal dottor Gioiosa perché ha reso possibile l’edizione del primo
volume di Atti, di cui ha promosso la divulgazione e l’inclusione nei cataloghi
nazionali.
Infine il sentito ringraziamento va alla figlia del Maestro, professoressa
Elena Lipizer, che ha coadiuvato il lavoro del professor Drascek, collaborando
con lui in modo fondamentale. E’ Lei che ha accolto l’invito degli ex-allievi
del Maestro di creare l’Associazione che porta il nome di Lipizer; è attiva in
essa nonostante debba portare avanti il lavoro non facile nella scuola di
musica. Questa mattina, in un incontro avuto con il professor Principe – mi
commuove dirlo –
abbiamo gettato le basi
di un futuro importantissimo lavoro: la biografia di Rodolfo Lipizer. La
famiglia Lipizer fornirà tutta la documentazione necessaria affinché
quest’opera possa essere pubblicata in tempi brevi, un’opera che parli del
Maestro ma anche di Gorizia, la città in cui ha vissuto e operato. Per l’Associazione
Lipizer questo è un primo traguardo editoriale che riempie di gioia: è una
giornata felice ma anche un punto di partenza per future e più ambite
realizzazioni editoriali.
Nel 1990 l’Associazione Culturale Rodolfo Lipizer ha ottenuto un grande
riconoscimento dal Ministero per Beni Culturali e Ambientali: l’inclusione
nella tabella nazionale degli enti che svolgono servizi di rilevante valore
culturale.
I Convegni hanno promosso la cultura musicale per mezzo dello studio dei
problemi inerenti il violino e l’apporto didattico e culturale dei più illustri
docenti mondiali, attivi nei più prestigiosi conservatori, scuole e
master-classes internazionali.
Questi Atti riportano la loro voce.
Presidente dell’Associazione prof. Lorenzo
Qualli
PROF. GIANNI DRASCEK – Gli Atti dei Convegni Internazionali sul violino,
organizzati dall’Associazione Culturale “M° Rodolfo Lipizer”, sono una
tangibile testimonianza della vitalità culturale e pedagogica dell’odierno
mondo musicale.
Ho affrontato questo lavoro di coordinamento, sistemazione, collazione e
revisione dei testi in un progressivo coinvolgimento
e con partecipe puntiglio. Ho rispettato il
“clima linguistico” di ogni singolo intervento per non spersonalizzarlo e
omologarlo, ma conservarne invece l’immediatezza e, in taluni casi, il pathos.
Durante i primi cinque Convegni sono stati affrontati i seguenti temi:
1983 – Problemi di programmazione musicale e organizzazione dei Concorsi di
violino.
1984 – Scuole violinistiche a confronto sui problemi tecnico interpretativi ed
espressivi.
1985 – Violinisti e pedagoghi poco noti ma importanti per l’opera svolta.
1986 – La didattica del vibrato sul violino e viola proposta dall’opera
pedagogica di R. Lipizer paragonata alle soluzioni date al problema da altri
insigni violinisti.
1987 – La tecnica violinistica quale fondamento per l’interpretazione musicale.
Sono trattati, dunque, aspetti fondamentali del campo violinistico, come la
didattica, la metodologia, l’interpretazione ma anche tematiche musicali più
generali, quali la critica, l’estetica, la biografia e i problemi reali del
lavoro, spesso oscuro e poco riconosciuto, degli insegnanti.
I relatori sono di per sé la garanzia
della tensione intellettuale presente in ogni intervento, sia esso una
relazione sistematica oppure un’esposizione in apparenza asistematica ma in
realtà pregna di idee, di indicazioni e proposte originali, percorsa comunque
da un’intensità dialettica mai ovvia.
Non mancano gli spunti polemici contro una serpeggiante incomprensione dei
problemi musicali da parte dell’establishment, preoccupato spesso più della
quantità che della qualità delle proprie operazioni culturali.
La pubblicazione si rivolge ad un pubblico ampio, e specialistico.
Ogni persona culturalmente curiosa vi potrà ritrovare notizie poco note, punti
di vista suggestivi, chiarificazioni illuminanti, una visione globale della
musica, derivanti dall’esperienza, dalla conoscenza e dalla professionalità dei
violinisti e dei musicisti intervenuti nei dibattiti. Gli stessi si rivolgono
agli specialisti, agli addetti ai lavori, ai docenti e agli studenti con acume
e rigore metodologico.
La lettura degli Atti è un itinerario culturale sostenuto dal dialogo tra
relatori e “pubblico”, talvolta in antitesi, sempre sorretti però dal comune
interesse per il progresso musicale.
Coloro che da queste pagine dialogano con il lettore, provengono da tutte le
parti del mondo.
L’espressione villaggio globale allude alla fitta rete di
interconnessioni, positive e negative, presenti nella vita contemporanea: le
interconnessioni attuate dalla musica non possono essere che positive, in
quanto quest’arte universale arricchisce e accomuna.
In tempi in cui le pubblicazioni sovrabbondano – soprattutto per quanto
riguarda una certa omogeneità degli argomenti – una che tratti di musica in
modo non univoco perché molteplici sono i punti di vista, può suscitare
interesse in tutti coloro che, per professione o per passione, fanno della
musica parte della loro quotidianità.
Curatore degli Atti prof. Gianni Drascek
PROF. QUIRINO PRINCIPE – Devo dire che quando mi è toccato, e mi toccherà in futuro,
il compito di
presentare un volume di
Atti, mi troverò sempre di fronte a una profonda perplessità: è un segno della
fase che noi attraversiamo in questa fine di secolo e millennio, della nostra
civiltà carica di storia e quindi storicizzata, piena di memorie e di
sedimentazioni a più strati soprattutto, l’abbondanza di discorsi sui discorsi,
i discorsi sui discorsi sui fatti e le riflessioni su questi discorsi di
secondo, di terzo o di quarto grado?
Già di per sé i Convegni sull’insegnamento del violino, sulle scuole
violinistiche, sui Concorsi violinistici, sono dei discorsi di secondo grado.
Si potrebbe dire che la stessa musica è un discorso su qualcosa, in particolare
poi un volume di Atti, una registrazione di terzo grado di questa attività.
Questo potrebbe sembrare un motivo per allontanare il lettore dalla realtà che
viene descritta… la storia della critica, la storia della storia della
critica e quanto più si sale di grado diventa
sempre più un discorso per specialisti. E la stessa rosa degli
specialisti si restringe sempre più.
Capita spesso, magari per fondatissimi motivi, che un volume di Atti, che viene
mandato in omaggio o che rimane ai partecipanti ad un Convegno, sia considerato
quasi un non libro, un libro che serve come consultazione, come catalogo, come
repertorio, che serve indubbiamente a tante cose e che rivela subito la sua
utilità, che si estrae dallo scaffale molto spesso ma che non si legge mai di seguito,
come si legge un romanzo, un saggio storico o un pamphlet politico. Questo è
umano, ma in realtà è un’operazione errata. Proviamo quindi a leggere un volume
di questo genere di seguito. A volte capitano delle circostanze in cui si abbia
del tempo, si trovi un tempo apparentemente vuoto, lo si riempia, per esempio,
durante un viaggio in treno, e allora molte scoperte si concretano e molte
realtà nascoste vengono alla luce.
In primo luogo c’è alle spalle di un
libro del genere un lavoro prezioso sempre sottovalutato, spesso misconosciuto,
quasi mai citato, che è quello del curatore. Abbiamo parlato di una fase di
civiltà che noi attraversiamo, una fase anche di inflazione dal punto di vista
pubblicistico, fase nella quale noi entriamo in una libreria e proviamo quasi
un moto di nausea e di disgusto perché ci
accorgiamo che la quantità di ciò che è accatastato sugli scaffali fa
perdere il significato di ciascuna delle unità che ci troviamo di fronte. Il professor
Drascek parlava di una tendenza alla omologazione, e questo è inevitabile per
tutti i generi di letteratura e di pubblicistica che gli editori pubblicano. Un
romanzo d’avventure vale tutti gli altri, un saggio di economia o un saggio
politico tende ad omologarsi agli altri, rendendo inutili gli altri o se
stesso.
E allora, ecco che forse una registrazione fedele di ciò che è stato detto e
fatto in un’occasione anche di combattimento o scontro polemico – perché c’è
molta polemica in questo libro, a volte un insieme di sottintesi che
meriterebbero di essere sviluppati – acquista una dimensione di unicità che lo
rende meritevole di quella famosa lettura continuata che spesso non si fa.
D’altra parte il fatto che un libro venga aperto, letto, acquisito per quello
che è con molto interesse e poi non concluso nella lettura, è condiviso da
molti altri libri. Sono profondamente convinto che Inshallah di Oriana Fallaci
o Il pendolo di Foucault di Umberto Eco siano stati letti da cima a fondo da
una minoranza
tra quelli che li hanno
acquistati, per vari motivi, diversi da quelli che potrebbero essere quelli che
riguardano questo libro, che invito a leggere e che ho letto con grande piacere
e con grande passione da cima a fondo. Questo è grande merito del curatore che,
come il traduttore, è una figura che spesso non compare nelle recensioni, a
volte viene nominato solo nell’occhiello o comunque non viene giudicato per ciò
che è il suo lavoro, mentre spesso è il vero autore del libro come oggetto,
come risultato e conclusione.
Se tutti i curatori e tutti i
traduttori
scioperassero, l’editoria
sarebbe ridotta al dieci per cento. Forse – mi direte – non sarebbe un gran
male, date le premesse, ma sono convinto che la qualità che rimarrebbe non sarebbe
la migliore. Perciò, parlare di questo libro non è un discorso che si sbriga in
pochi minuti. Non si tratta affatto di un non libro.
Vorrei proporre come leggere un libro
del genere.
Esiste una lettura orizzontale: ci sono stati degli eventi, i Concorsi, i
Convegni indetti dall’Associazione Lipizer, poi c’è stata una cronaca di questi
eventi, cronaca che tende ormai a diventare storia cittadina, storia della
cultura goriziana, e infine c’è la registrazione di questa cronaca che diventa
il libro. Probabilmente questo è un metodo possibile ma non è il più giusto, è
un metodo abbastanza arido come risultati. Esiste un metodo diverso, una
lettura verticale, un metodo di scavo in profondità, che segue la tecnica dello
sfogliare il carciofo, dal punto di vista metaforico molto importante perché –
come è noto –
ha a che fare con la
politica cavouriana o di altri geniali statisti. Esiste il libro che noi ci
troviamo di fronte: partiamo pure dall’esterno, dall’ultimo risultato, sappiamo
che in questo libro si nasconde una cronaca di avvenimenti che hanno avuto a
che fare, alle spalle dei Convegni, con dei Concorsi, con delle durissime prove
e al di sopra di queste ecco che noi non troviamo più la carta, un prodotto
editoriale con il suo eventuale prezzo, con il numero di pagine, ecc., bensì
degli eventi, dei momenti irripetibili
nella vita di molti giovani che hanno scelto, non dico la più difficile
delle strade ma certo una delle più difficili, delle più ingrate, che per di
più sono stati consapevoli al momento della loro scelta delle poche
gratificazioni, la grande difficoltà che essi avrebbero incontrato, una certa
sottovalutazione un po’ benevola e paternalistica da parte dell’ “altra”
realtà.
L’arte in
genere o è trascurata o è perseguitata o è
protetta, e il fatto che sia perseguitata non è forse la sorte peggiore perché
indica che viene riconosciuta come una forza. Al di sotto di tutto questo
c’è la profonda sofferenza quotidiana, la
realtà umana di questi giovani che per presentarsi al Concorso così
valorosamente hanno dedicato e sacrificato le loro giornate, non hanno vissuto
la loro giovinezza. Il giovane che si dedica alla musica non vive come un
giovane ma come un monaco, un eremita, un fachiro, perché le sofferenze sono
inenarrabili. Da questo nucleo umano, facendo il cammino a ritroso,
noi vediamo nascere gli eventi, la cronaca
degli eventi e finalmente il libro.
Se facciamo questa considerazione, se
sappiamo che in questo cumulo di carta stampata c’è la registrazione di un
nucleo che ha dato i suoi frutti, allora cominciamo ad avere maggiore rispetto
per il
libro o per libri di questo
genere. Il frutto finale di questo nucleo di sofferenza che cresce e diventa
libro o questo nostro incontro, che è molto bello e già è stato in queste prime
battute molto autentico – ce ne siamo accorti tutti, autentico da entrambe le
parti, ammesso che si possa parlare di parti contendenti – ebbene, il frutto di
tutto questo significa cultura nel vero senso della parola, come modo di
vivere, di combattere, di litigare quando è necessario. Cultura goriziana,
cultura di questa città che è indubbiamente marginale dal punto di vista
geografico, città di cui spesso, nello stato che la comprende,
non ci si rende conto, non la si conosce, non
la si sa collocare.
Allora vengono in mente molte
considerazioni, tante troppe considerazioni, che abbiamo fatto nel corso della
nostra vita, che io personalmente come goriziano, “Goriziano in esilio”, in
partibus infidelium, ho fatto durante molteplici esperienze, forse più di chi
ha avuto il merito di rimanere e vivere a Gorizia.
Tanto per cominciare, soltanto vivendo
fuori Gorizia ci si rende conto dell’importanza che ha avuto ed ha Rodolfo
Lipizer, la sua opera didattica. Ci si rende conto che intanto i volumi
didattici di Lipizer sono considerati materia preziosa, spesso difficilmente
accessibile, quindi di grado superiore, cosa da non affrontarsi con
approssimazione, non soltanto nelle grandi Scuole di musica italiane
– purtroppo in Italia ci sono soltanto i
conservatori
o magari l’Accademia di
Fiesole – ma anche nelle grandi istituzioni didattiche di musica straniere,
soprattutto dell’area austro-tedesca, mitteleuropea. Già il suo cognome lo
dice, un cognome che ispira rapporti interzonali da tutti i pori: Lipizer ci
ricorda Lipiza, i cavalli lipizani, il Rosencavalier, Fritz von Herzmanowsky
Orlando e il suo strano impero che va dalla Carinzia alla Dalmazia, passando
attraverso Gradisca, capitale dell’impero: in quel delizioso romanzo ancora
inedito in Italia che è “La mascherata dei geni” Lipizer potrebbe essere in
Musikdirektor ideale del singolare impero del bizzarro scrittore
austro-italiano.
Ci si rende conto anche dell’importanza crescente, acquisita e grandeggiante in
Italia e fuori d’Italia del Concorso Lipizer e la considerazione di cui ormai
esso gode. Direi che purtroppo, in un mondo che è fatto di rapporti di forza,
l’aggettivo più lusinghiero del Concorso Lipizer, in questi casi, è “temibile”,
come dei grandi, duri Concorsi di cui si ha giustamente paura, come del resto
possiamo leggere nelle pagine di questo libro a proposito del Convegno del
1987, quando con
parole piacevolmente
stupite il professor Frischenschlager dice: “Credevo di arrivare a Gorizia e di
trovare un Concorso tranquillo: invece ho trovato un Concorso del livello del
Ciaikowski o del Wieniawski”. Qualcosa insomma di temibile e monumentale che
intimorisce.
Di questo, una città come Gorizia,
piccola città di provincia, è capace. Non a caso ne è capace, perché noi
abbiamo ascoltato l’inizio di questa nostra conversazione che cosa “bolle in
pentola”, che tipo di problemi e contrasti sono emergenti come bolle. Abbiamo
sentito anche momenti di grande e difficilmente frenabile, ma vittoriosamente
frenata, commozione. Quando io mi accorgo che ci si sa commuovere, dopo avere
lavorato per anni con incredibile passione. Evidentemente siamo di fronte ad
una realtà molto diversa da quella metropolitana.
Purtroppo l’Italia è un paese in crisi,
finanziaria ma non economica, un paese di ricchi e di vergognosamente ricchi,
un paese disastrato dal punto di vista finanziario come la Francia nel 1788 –
speriamo che questo non indichi possibili analogie in prospettiva e in
sviluppo! – Ci sono due Italie, e non sono affatto il nord e il sud, il nord
cattivo e il sud buono, oppure viceversa. C’è l’Italia metropolitana, quella
delle grandi città che per diabolici motivi non siamo riusciti a rendere
“cervello e cuore” ma ormai soltanto “lavandino e sacca dei rifiuti” di tutto
ciò che è peggiore. Lo dico senza enfasi o astio, ma con profondo dolore. C’è
poi l’Italia incredibile e sorprendente, che sorprende a Gorizia come – cito
luoghi incredibili dove sono stato per lavorare in campo musicale – Città di
Castello, Avellino, San Giorgio al Sannio. Questa è l’Italia che ci fa dire:
“Allora siamo apposto, tutto va bene, quello che dicono i giornali non è vero,
è un brutto sogno, è un incubo!”. Poi torniamo nella realtà metropolitana e ci
troviamo di fronte all’incubo.
Esattamente un settimana fa, oggi è
martedì, mi trovavo a Milano nella Sala
Gialla della Scala di Milano ad un incontro per la convenzione tra la Regione
Lombardia e La Scala. C’erano gli omologhi degli illustri rappresentanti
dell’Amministrazione pubblica che abbiamo qui presenti, Assessori ai Beni
Culturali della Regione, del Comune, della Provincia e di altre province
lombarde. L’impressione che se ricavava era quella che si può provare vedendo
un film fantapolitico, purtroppo sempre meno “fanta”, un film su intrighi
terribili, su inconoscibili segreti che non vengono svelati, un atteggiamento
di muro contro muro, di muri di gomma – visto che l’espressione è abbastanza di
moda – . Qui invece siamo di fronte a un discorso autentico, reale, senza
eufemismi, tutto ciò che abbiamo sentito prima: così si amministrano le
città. Magari si amministrano male. Io
non credo che Gorizia sia amministrata male, anzi penso che tutto sommato sia
amministrata bene. Magari si amministra male, ma con autenticità,
dichiarandosi, confessandosi, discutendo, non trincerandosi nel silenzio, nella
reticenza di fronte a qualsiasi domanda che sia, appena appena, un po’
imbarazzante. C’è in Italia una realtà che assomiglia tanto a Gorizia e che ci
invoglia a continuare, ad andare avanti, a parlare, a stare qui: altrimenti non
varrebbe la pena di parlare di cose del genere di fronte ad altri tipi di
amministratori e di realtà, ormai irrecuperabile, non più salvabile. Questo
andava detto, questo ho voluto dire.
Ma dobbiamo ritornare al libro, perché
di esso ci si deve occupare. Esiste la realtà di cui il libro è la
registrazione. Realtà da leggere da cima a fondo, realtà che il libro
sottintende e da cui è nato. Ci sono le
cronache fedeli – sappiamo quanto lavoro rendere queste cronache libro sia
costato al curatore – insisto sulla figura misconosciuta ed eroica del
curatore, in questo caso il professor Drascek, inutile dirlo – cronache di
cinque Convegni, i primi rispetto alla serie che sta continuando, i cui temi
indicano un singolare itinerario. Si è partiti da un Convegno (1983) che era
quasi un’autologia, un discorso su se stesso, un primo passo concreto ed
empirico, secondo lo stile goriziano, cioè “i problemi di programmazione e di
organizzazione dei Concorsi di violino”, un Convegno che rappresentava la
massima modestia – non nel senso untuoso della parola – nei confronti di chi
aveva saputo creare quella realtà, che è l’annuale Concorso Lipizer ormai
radicato nella cultura musicale europea e il discutere su come programmarlo,
tema che potrebbe sembrare non soltanto al profano ma anche al musicista
terribilmente arido. Poi aprendo le pagine di questo libro, vediamo che le
polemiche, le effusioni di un esprit, forse perduto per certi aspetti in altri
settori, incominciano già ad abbondare in questo primo Convegno.
Il secondo Convegno (1984) entra in un
settore dei carattere storico-estetico affrontando le “scuole violinistiche”.
Anche questo può sembrare un capitolo dell’Enciclopedia della Musica della UTET
oppure il capitolo di un cattivo manuale di storia della musica o pessimo come
quelli in uso nei Conservatori italiani, quelli che seguono le tesi che
verranno portate all’esame non l’itinerario storico-critico. In realtà l’Italia
è un paese, soprattutto se non esclusivamente, di beni culturali, la sua più
grande ricchezza non nel senso traslato e idealizzato, di cui l’intellettuale
che tutto sommato ha lo stipendio e non ha problemi particolari – beato lui! –
parla di solito. No, nel senso letterale di ricchezza fatta di moneta e di beni
materiali. Ebbene, in Italia le scuole violinistiche come le scuole
pianistiche, in particolare le prime, in quanto è stata la didattica del violino,
la fondazione di uno stile, di un modo di suonare e di intendere l’uso e
l’impiego di questo strumento, le formazioni orchestrali cameristiche che sono
nate intorno agli strumenti ad arco, sono una gloria della cultura musicale
italiana, laddove invece gli strumenti a tastiera, malgrado la presenza di
grandissimi inventori, per esempio Domenico Scarlatti o lo stesso Gian Battista
Viotti, pianista oltre che grande violinista, non sono propriamente un vanto
italiano. Appartiene semmai ad altre aree culturali. Queste distinzioni nella
prospettiva di un’Europa che si spera, ahimè, sempre più unita, si vanificano.
Di fronte ad una riflessione storica
non
possiamo dimenticare che le scuole violinistiche italiane sono dei beni
culturali, rappresentano un
filo rosso
che arriva fino a noi. Che questo filo rosso sia spezzato e che uno dei più
illustri relatori di questo Convegno dica che l’Italia è stata il “paradiso”
delle scuole violinistiche e oggi è un “rudere” – frase un po’ forte ma che ci
fa riflettere – non soltanto non cambia il senso di questo discorso ma lo
rafforza.
Il terzo Convegno (1985), dedicato a
“pedagoghi poco noti ma importanti per l’opera svolta”, entra in un campo
sempre più profondo e sempre più concreto, per noi molto dolente dell’educazione
musicale, delle scuole di musica, dei conservatori.
Con il quarto e quinto Convegno, con cui
si conclude la cronaca rappresentata da questo libro, si sale al livello
inventivo ed estetico. Il tema del quarto (1986) è terribile, sembra respingere
i
profani
e gli addetti ai lavori e anche i musicisti,
e riguarda “la didattica del vibrato sul violino e viola proposta dall’opera
pedagogica di R.Lipizer, paragonata alle soluzioni date al problema da altri
insigni violinisti”: un discorso assolutamente tecnico e invece ci accorgiamo,
leggendo questo libro, che è fra le parti più
appassionanti e più simili ad un dibattito politico.
Apro una nota in calce. Diceva Orazio,
parlando dei poeti e dei letterati “vatum irritabile genus”, che potrebbe
essere variato in “musicorum irritabile genus”: non c’è gente più astiosa e
alla fin fine più antipatica, nel senso etimologico della parola, dei
musicisti. “Antipatica” nel senso che
c’è un “anti pathos”, un nascere e svilupparsi del sentimento contrario. Se ne
parlava questa mattina con la Signora Lipizer
e con il professor Qualli. E’ difficile trovare un musicista militante,
in particolare uno strumentista, che parli bene dei suoi colleghi
nell’esercizio di quello strumento. Se per caso uno dice: “Ho sentito – non
parliamo di pianisti o di violinisti ma, per esempio, di oboisti – il concerto
del tale oboista”, “Ah, sì, com’era?”, e comincia già a sospettare di fronte a
questa domanda inquisitoria, “Che cosa dovrò rispondere!”, e dice “Buono… ”,
in un modo abbastanza neutro. “Doveva essere un miracolo, evidentemente, perché
di solito quello suona da cane!”. Le metafore che più spesso vengono applicate
nel linguaggio dei musicisti che parlano dei loro colleghi sono una metafora
zoologica “cane” e una di tipo artigianal-produttivo “scarpa” : quello è un
cane, quella è una scarpa. Ovviamente il discorso è reciproco, perché se si
parla con colui che è stato definito in questo modo, definirà l’altro con gli
stessi epiteti. Questo può anche essere piacevole, interessante, divertente ma
è anche molto demoralizzante e spesso fa perdere di vista i punti di
orientamento. Verrebbe voglia di non emettere
giudizi.
Tornando al violino, per quanto riguarda
le dicerie dell’un violinista nei confronti dell’altro – i violinisti poi, come tutti i musicisti,
sono delle persone deliziose e
bravissime, che non fanno male ad una mosca… lasciamoli almeno parlare! -, ma
nell’ambito del parlato c’è sempre un atteggiamento crudelmente conflittuale,
non volgarmente, perché in esso c’è qualcosa di tragico. Uno dei campi, in cui
spesso si accendono le lotte, è il vibrato. Io ho assistito a molti esami finali
in conservatorio e ad essi partecipavano spesso persone illustri: una è
presente nel libro, una donna deliziosa ma temuta giustamente per la sua
severità, Margit Spirk del Conservatorio di Bolzano. Ricordo, e sono nomi che
ci riempiono di commozione, Elisa Pegreffi – moglie e vedova di Paolo Borciani
– secondo violino del “Quartetto
Italiano”. Sì, certo, persone interessantissime, ma quando si parlava di
vibrato! “Ma, come? Il suo insegnante le ha insegnato così il vibrato?”.
Naturalmente l’anno dopo valeva il discorso inverso. Io non sono violinista, sono analfabeta in
questo campo, sono uno che legge partiture, che ascolta, ma devo dire che il
vibrato è un elemento essenziale e fondamentale. I punti strategici dell’interpretazione,
dal punto di vista espressivo ed estetico e dei significati, vengono giocati
proprio sull’uso del vibrato. Questo Convegno così apparentemente tecnicistico,
doveva essere e lo è stato, un dei più caldi e combattuti.
E finalmente il quinto Convegno (1987)
qui registrato, “la tecnica violinistica quale fondamento per l’interpretazione
musicale”: siamo di fronte ad un grande problema, poetico e individualizzato.
Si esce dall’eredità didattica per affidare tutto alla responsabilità
dell’interprete. Siamo di fronte al famoso rapporto che fa impazzire gli
studenti di conservatorio e avvelena gli animi nei rapporti tra docenti,
rapporto tra tecnica e “interpretazione”, tra tecnica e musica, altro argomento
che viene spesso trattato in modo aforistico e lapidario in queste pagine.
Penso sia stato Zafred ad affrontare il problema se nell’opera vengano prima la
musica o le parole e viceversa, in questo caso prima la musica e poi la
tecnica. Chi non ha figli che studiano in una scuola di musica o in un
conservatorio, non si rende conto umanamente di questi problemi.
Sappiamo benissimo che i “poveri
giovani” che commettono l’errore fondamentale di studiare musica, benedetto
errore!, per fortuna ce se sono tanti che lo commettono, altrimenti non ci
sarebbero più musicisti, i giovani che seguono questo richiamo all’abnegazione
– altro che il giovane ricco del racconto evangelico, altro che San Francesco,
questo sì che è un cedere tutto per dedicarsi ad una vita di sacrificio perenne
– costoro saranno poi tormentati da questa specie di schiacciasassi che è
questo dilemma: fedeltà filologica o libertà interpretativa? Il suonare in
stile oppure il suonare al di là dello stile voluto dalla prassi interpretativa
dell’epoca in cui la composizione è stata
composta? O, più banalmente, soddisfare le tendenze di questo o di quel
docente? Argomenti tra i più scottanti. Ne viene fuori quello che il nostro
curatore, Gianni Drascek, ha chiamato “un itinerario culturale e un dialogo tra
relatori e pubblico”, dialogo spesso non
non pertinente ma impertinente, spesso giustamente irrispettoso, che ha
visto gli uni e gli altri, i contendenti di entrambi i campi, accumunati dall’
“interesse per la musica”. Finché si combatte per qualcosa di importante, di
degno, si combatte sempre bene e si è dalla parte giusta, anche se schierati in
campi diversi.
Alla fine c’è un passo nell’introduzione del curatore che merita
un’osservazione.
Prima ho detto “interesse per la musica”, ma il testo dice esattamente per “il
progresso musicale”. La categoria di progresso è una categoria di carattere
storicistico applicata a qualcosa di atemporale come un’arte, la musica. Esiste
un progresso nella musica? Esiste un progresso nel Cristianesimo o nella
pedagogia? Proviamo a rispondere di sì.
L’idea di progresso non nasce come un’idea dialettica, ma come una concezione
rettilinea; poi la concezione è stata corretta dalla filosofia mediante la
dialettica. Anche una linea spezzata, dei ritorni, delle cadute possono essere
superati, “aufgehoben” diceva Hegel , e assunti o riassunti in un sostanziale
progresso, che è tale proprio perché si combatte tra la tesi e l’antitesi, ma
che comunque c’è. Allora, per esempio, se c’è un progresso nel Cristianesimo,
dovremmo dire che l’attuale pontefice – persona per la quale ho il massimo
rispetto –
rappresenta un progresso
rispetto a San Pietro, perché l’ultimo papa della storia è migliore del
“primo”: tutti si accorgono della insensatezza di questa frase. Esiste un progresso
nella pedagogia, come dicevano negli anni ’70 alcune scuole pedagogiche
italiane: devo dire, senza un briciolo di ironia, che allora Lamberto Borghi o
Aldo Visalberghi sono più importanti di Socrate perché vengono “dopo”. Ciò
rivela la sua vanità e inanità. C’è allora un progresso nella musica? Ciò
significa che J.S.Bach è stato il precursore di Luciano Berio, compositore che
merita il massimo rispetto, e che comunque Berio rappresenta un progresso
rispetto a Bach? Evidentemente, no.
Eliminata questa possibilità di
interpretazione, se c’è un progresso nella musica, in che cosa esso consiste?
Primo. Può consistere in uno sviluppo della tecnica nei due significati:
tecnica dal punto di vista materiale e artigianale, della costruzione degli
strumenti, il perfezionamento degli strumenti musicali. Oggi un cornista con un
corno a pistoni si trova infinitamente meglio di coloro che suonavano il
corno
nelle orchestre al tempo di Mozart
e dovevano lavorare con il pugno, perché avevano a che fare con il corno
naturale. Il flauto traverso rappresenta un immenso progresso tecnico rispetto
al flauto dolce. Il pianoforte a martelli rappresenta un progresso rispetto
alle possibilità offerte da un clavicordo o dal clavicembalo. Detto questo,
esistono delle categorie estetiche nelle quali abbiamo bisogno del flauto dolce
e non di quello traverso, abbiamo bisogno del clavicembalo. Non possiamo
suonare le sonate di Paradisi con il pianoforte. Oggi c’è un po’ la mania degli
strumenti originali, una forma di ipercorrezione e di eccesso. La tecnica, dunque,
è stata in evoluzione e in progresso. Il discorso per cui è bene suonare certe
musiche obbligatoriamente con gli strumenti originali, merita una risposta
negativa, perché può essere interessante suonare con gli strumenti originali in
composizioni per piccolo organico, ma certamente Beethoven “avrebbe sognato” le
orchestre di oggi e anche con il loro grande organico. “Schubert
va eseguito solo sul forte-piano” –
possibilmente datato 1825 – : egli sarebbe stato felice invece se avesse avuto
uno Stanwey costruito degli anni ’30, anni in cui si fecero i migliori Stanway,
ma anche un pianoforte degli anni ’70 e ’80.
Non c’è un progresso tecnico in altro
senso, ed è il progresso didattico, nella capacità di suonare, che è
quell’aspetto del “progresso musicale” di cui è stato protagonista Rodolfo
Lipizer. Non si può dire certo che Lipizer rappresenta un progresso rispetto a
Carl Flesch, questo grandissimo didatta che però considerava irrealizzabili
certe procedure e irraggiungibili certi effetti che Lipizer, proprio proponendo
certi esercizi diabolici ma produttivi e condotti con intelligenza e
lungimiranza, riesce poi a realizzare. Né si può dire che Lipizer o Flesch
siano un progresso rispetto a Paganini. Tutto questo non ha nessun significato
in quanto stiamo parlando di un’attività artistica, di qualcosa che non è
sottoposta ad una visione rettilinea del tempo ma ad una visione circolare, in
cui tutto ritorna ad avere il significato perenne che ha sempre avuto, in cui
non ci sono scarti o superamenti o eliminazioni ma alternative radiali, tanti
punti sulla circonferenza: parto dal centro di un cerchio e decido di andare
lungo un raggio verso un determinato punto o verso un altro punto. Non c’è un
superamento rettilineo, un segmento dopo l’altro e gli altri vengono scartati e
piombano nel nulla.
Questa visione circolare delle cose è
acquisita anche dalla cosmologia, la quale ci ha insegnato che l’universo non è
finito
come un cubo, come questa stanza,
e neppure infinito come la cosa che uno vede quando chiude gli occhi e dice
“infinito” e non sa bene che cosa sia, perché infinito vuol dire tra l’altro
indefinito e quindi non definibile, ma è un infinito chiuso. E’ dovere della
nostra cultura incominciare a pensare in modo circolare e non in modo rettilineo,
cioè a pensare in modo perfetto e non imperfetto.
E poi c’è un terzo tipo di progresso nel
quale io, che non sono storicista, credo ed è il progresso sociale, il
progresso dell’organizzazione delle realtà sociali, riferito alla fruibilità
dei beni culturali. E’ progresso tenere aperti i musei; è progresso obbligare i
custodi ad essere più corretti con il pubblico; è progresso obbligare i
direttori di Conservatorio ad esservi presenti, visto che noi contribuenti li
paghiamo; è progresso esigere che, quando ci sono dei Concorsi per i giovani
disgraziati che hanno scelto la carriera
del musicista, ci sia almeno un minimo di giustizia e non ci siano delle
gratifiche precostituite e prefissate in base non già al merito ma in base al
privilegio o al favore o al clientelismo.
Questo significa “progresso musicale” e
significa anche lo spostare l’attenzione. Non voglio parteggiare né per il
professor Qualli, ammesso che sia un parteggiare, né per i nostri squisiti e
deliziosi amministratori pubblici che hanno parlato: ma voglio parteggiare per
delle scelte in prospettiva. Quanto è stato detto è vero, occorre tener conto
della realtà, ma è anche vero che in prospettiva conviene ricostituire una
scala di priorità,
ideali e sostanziali
e non transeunti, da tenere come punto fermo.
Certo, fino a quando in un contesto
sociale come quello italiano, vuoi il musicista, vuoi l’operoso accademico,
vuoi il geniale scrittore, vuoi il saggista intelligente e coraggioso saranno
considerati “meno” di un alto ufficiale, di un qualsiasi corpo separato di una
qualsiasi arma, nella scala di valori, allora…
Il secondo è senz’altro una persona dinanzi
alla quale bisogna mettersi sull’attenti. Se passiamo davanti ad una caserma…
degli ussari o dei gendarmi di Nicola II e in quel momento esce un personaggio
importantissimo, gli ussari che sono di guardia, ci bloccano e noi non possiamo
passare perché esce questo personaggio! Sono piccole cose, ma significative. Se
noi camminiamo vicino ad un Conservatorio, non è mai successo che esce il
celebre violinista, non so Paolo Borciani, e allora degli ussari ci bloccano
perché esce Paolo Borciani! Oppure a Vienna Walter Schneidehan! In questo,
tutto il mondo è paese. Forse tra le persone che rendono importante e
prestigioso un paese, ci sono anche coloro che si dedicano a produrre beni
culturali e i musicisti sono in primissimo luogo tra questi.
Un po’ di astuzia, tra l’altro, e di
lungimiranza storica! Alcune arti hanno tenuto il posto in epoche diverse.
Nel XVI secolo in Italia il primo posto lo
tenevano le arti del disegno, della figura, la pittura, l’architettura, ecc.
Viviamo in un’epoca in cui, occasionalmente e casualmente, fra le arti la
musica è quella che trova la maggiore corrispondenza tra il pubblico, quella
che ha soppiantato le altre nel primato del favore e della considerazione.
Teniamo conto anche di questo. La musica è un’arte demoniaca, le altre arti non
lo sono almeno a questo livello, è un’arte cattiva, aggressiva, pericolosa
per lo stato. Rendiamoci conto di questo e
allora lo stato deve tener conto di questa realtà e deve cercare di
esorcizzarla, di mitridatizzarla, cercando di evitare che diventi eversiva. E
se domani ci fosse una rivoluzione di musicisti – non ci credo naturalmente –
in armi
perché non c’è un sufficiente
progresso nei rapporti? Chiedo scusa per questa visione fantastorica.
Vorrei dire, infine, – se ne parlava con
la Signora Lipizer e il professor Qualli – quanto sia stata bella, insolita,
originale e rara la proposta
suggerita
in occasione del terzo Concorso da Angelo Stefanato, grande e notissimo solista
di violino, che il presidente della Giuria del Concorso, compositore italiano
scelto tra i più interessanti esistenti in Italia, fosse l’autore di un pezzo
di nuova produzione, di un bene culturale
prodotto ex novo, che diventasse uno dei pezzi d’obbligo del Concorso
successivo di due anni. Questo è un esempio di progresso in musica, cioè il
fatto che la realtà didattica e valutativa si leghi al momento produttivo e
creativo.
Chi sono stati questi compositori italiani? Appartengono a scuole e tendenze
diverse. Accanto a quelli tonali, tradizionali come Giulio Viozzi e per certi
versi Chailly, altri che soprattutto in passato hanno spaventato la critica
come Riccardo Malipiero che è stato il primo diffusore e pioniere della
serialità, della dodecafonia, in Italia e proprio per questo vituperato ancora
dopo la Seconda guerra mondiale, non parliamo di prima
e durante la guerra dalla solita consorteria
fascista di Porrino, Pannain, purtroppo Lualdi e così via, ma anche dopo. O
compositori
di posizione intermedio-marginale,
come Hazon, marginale perché si pongono “al margine” del problema, o
compositori variabili come Turchi. Risulta tra questi compositori una gamma
estremamente interessante. Mi chiedo se sia previsto un allargamento dei
compositori a quelli stranieri? Questo presenterebbe vantaggi e svantaggi. Il
vantaggio sarebbe quello di internazionalizzare sempre più il Concorso Lipizer
e l’Associazione, ciò che si muove intorno ad essa e la città di Gorizia. Lo
svantaggio o perlomeno il
non vantaggio
sarebbe la negazione del vantaggio, che consiste nello stimolare soprattutto la
creatività dei compositori italiani, che è una creatività considerata, tranne
alcuni grandissimi nomi…
più che altro
risonanti, meno importante della creatività di altri.
Esistono poi all’interno delle
conversazioni avvenute nel corso del Convegni dei momenti di grande tensione.
Ne riferisco soltanto alcuni.
Per esempio, il celebre discorso che
ebbe per protagonista Zafred e altri sui “panni sporchi” – questa mia chiacchierata
ha lo scopo anche di stimolare i lettori a leggersi queste cose direttamente
–
è un discorso che chiama in causa
l’attuale Presidente del Consiglio Giulio Andreotti, il quale – e non sarebbe
stata la prima volta – si sarebbe reso protagonista di una frase quantomeno
incauta. Ricordo che l’attuale Presidente, non musicista ma non gliene faccio
una colpa, prese alcune volte delle posizioni in campo musicale emettendo dei
giudizi di grande rilievo per la loro infelicità, per gli errori clamorosi che
questi giudizi presentavano. In questa circostanza chi replicò fu un
compositore ormai scomparso, purtroppo, il compositore triestino Mario Zafred,
considerato già un “terribile vecchio” nella musica italiana, uomo
irriducibile. Intorno a questa discussione, che nasceva da un piccolo problema
musicale, si sviluppa una discussione a non finire che costituisce da sola un
motivo di grande interesse in questo libro. Così come un altro grande motivo di
interesse
il discorso del famigerato
quarto Convegno sul vibrato, argomento che sembrerebbe così tecnicistico:
discussione che nasce tra diversi grandi didatti ma anche grandi conversatori,
sul fatto che il vibrato non deve essere il frutto omogeneo e indifferenziato
di una didattica a senso unico, ma deve essere interpretato non soltanto con
estrema libertà da scuola a scuola, da docente a docente, ma addirittura da
allievo ad allievo. Margit Spirk, scolara di Giannino Carpi – bello vedere in
questo libro le linee di eredità delle scuole violinistiche – dice che lui
insegnava a decidere a “lei” come eseguire il vibrato, con consapevolezza,
magari qualcosa di completamente diverso da ciò che Carpi stesso le aveva
insegnato.
Un altro punto di estremo interesse
storico e culturale, anche per gli specialisti e storici della musica, di
questo libro è l’emergere di un discorso che io confesso non ho trovato da
nessun’altra parte, in nessun manuale storico o rivista specializzata e che
poteva emergere soltanto qui: il mettere a nudo e lo smontare, come fanno i
bambini per vedere i fili di un dispositivo elettrico,
certe linee storiche e pedagogiche di scuole
violinistiche. Il costituirsi di un itinerario che svela quali siano
state,
veramente di fatto, le grandi
scuole violinistiche europee. Per esempio, la linea che deriva da Abraham
Jampolski e arriva a Vaclav Huml, oppure – tanto per ricordare la persona che
grandeggia nel nostro discorso – la linea che ha ad un certo punto Rodolfo
Lipizer come punto di riferimento e che deriva da uomini di altra generazione,
vertiginosi per importanza, come Eusebius Mandiczewski
e in particolare, per quanto riguarda una
visione allargata della direzione d’orchestra, Farnz Schalk, che fu sostituto
di Richard Strauss all’Opera di Vienna e che è una figura centrale nella storia
della musica a Vienna nella prima metà del ‘900. Lipizer è stato anche
direttore d’orchestra e lo è stato proprio perché grandissimo violinista e
didatta di violino, uno che conosceva benissimo l’uso degli strumenti e il
suonare. Ci sono molti direttori d’orchestra che non sanno suonare ma godono
egualmente di grande prestigio!
Qual è il futuro dei Convegni, di cui
questo libro è prima e, mi auguro, soltanto una prima
registrazione seguita da altre?
Penso che, da indiscrezioni che sono
state riferite dagli organizzatori stessi, ci si avvierà verso un ritorno di
questi problemi, ossia l’itineraio che abbiamo descritto dal primo al quinto
Convegno, da una visione tecnico-didattica ad una sempre più di tipo
estetico-creativo-produttivo-interpretativo, è destinata a diventare circolare,
cioè a far ritornare temi di diverso livello di modo che il cerchio si chiuda
sempre meglio. E’ stato affrontato, per esempio quest’anno, un tema a dir poco
affascinante, riguardante “l’estetica
musicale contemporanea e la pedagogia del violino”.
Se c’è oggi una crisi nella musica, non
è certamente una crisi tecnica. Coloro che escono dai conservatori, persino da
quelli italiani, sono in genere bravissimi, giovani perfettamente preparati che
sanno eseguire musiche difficilissime come scrittura, in genere. L’aspetto
didattico non è particolarmente manchevole. La vera povertà è nel senso di ciò
che si fa.
E’ – scusate la metafora – lo stesso
motivo per cui noi ci domandiamo come mai in Italia una polizia così
efficiente, una magistratura così preparata e così piena di spirito di
sacrificio, non riescano a sconfiggere la mafia, la camorra e la ‘ndrangheta.
Non è certamente una mancanza di buona volontà o un’inefficienza tecnica, anzi
vale il contrario, ma è probabilmente il non avere mai meditato sul senso
ultimo di quello che si fa. Non è difendere il bene contro il male, lo stato
contro l’eversione, ma qualcosa di molto diverso, su cui avrei molte risposte
drastiche da dare. Ma questa non è la sede. Allo stesso modo c’è da dire che
nei conservatori di musica in particolare italiani, ma non soltanto, malgrado
la maggiore o minore eccellenza del livello didattico, non si è mai capito
quale sia il senso ultimo di ciò che si sta facendo: c’è una mancanza di
meditazione filosofica ed estetica sulla musica. Il nostro secolo finisce
terribilmente pragmatico, terribilmente empirico, e sotto l’aspetto della
filosofia delle arti, della filosofia che medita sulle arti, spaventosamente
anti-filosofico.
Forse il motivo per cui il destino dei nostri giovani
che studiano musica è così poco felice e
tormentato, ha anche le sue radici in questo problema, cioè nella mancanza
della comprensione e di un senso ultimo di ciò che si sta facendo.
Penso che questo libro, attraverso
queste discussioni, serva magnificamente a risvegliare l’interesse per la
ricerca di questo senso ultimo.
Quindi, leggetelo. Grazie.
Musicologo prof. Quirino Principe
Agosto 16th, 2010