Presentazione degli Atti dei Convegni Internazionali sul Violino 1983 – 1987

Presentazione degli Atti dei Convegni Internazionali sul Violino Anni 1983-84-85-86-87 Convegno internazionale del 1991 da sin.: Lorenzo Qualli, Quirino Principe, Gianni Drascek Anteprima Associazione Culturale “M° Rodolfo Lipizer” Gorizia – Italia ATTI CONVEGNI INTERNAZIONALI SUL VIOLINO (1983-84-85-86-87) a cura di G. Drascek Gioiosa Editrice – Sannicandro (FG) – 1991 PRESENTAZIONE SALA DEL CONSIGLIO PROVINCIALE DI GORIZIA – ITALIA 15 OTTOBRE 1991 PROF. LORENZO QUALLI – Buonasera Signore, Signori, Autorità, amici, soci e simpatizzanti del sodalizio Lipizer, vi ringrazio della vostra presenza a questa cerimonia di presentazione degli Atti dei primi cinque Convegni internazionali sul violino, che si sono svolti proprio in questa sede, concessa dall’Amministrazione provinciale di Gorizia, negli anni 1983-1984-1985-1986-1987. Questo per noi della “Lipizer” è un primo traguardo editoriale che ci riempie di gioia: questa è una giornata di festeggiamenti ma anche un punto di partenza per future e più ambite realizzazioni editoriali. Oltre gli Atti dei successivi Convegni – settembre 1988-1989-1990-1991 – svoltisi parallelamente al Concorso Internazionale di violino “Premio R.Lipizer”, ci sono anche gli Atti del triennale Convegno internazionale sulla Liuteria, svoltisi negli anni 1984-1987-1990, e altre fondamentali opere musicali e pedagogiche del concittadino Lipizer, che ci stanno particolarmente a cuore in quanto ancora inedite e, proprio perché siamo continuamente stimolati in questa pubblicazione da tutti gli studiosi del violino, dai pedagoghi, insegnanti dello strumento,speriamo quanto prima attuarne la pubblicazione. Sono trascorsi dalla scomparsa di Rodolfo Lipizer ormai 17 anni e nel 1990 l’Associazione a lui intitolata ha ottenuto un grande riconoscimento dal Ministero per Beni Culturali e Ambientali con l’inclusione nella tabella nazionale degli enti che svolgono servizi di rilevante valore culturale. Per questo determinante risultato – dapprima morale e poi finanziario, in quanto è previsto un finanziamento triennale – dobbiamo un sentito ringraziamento al sottosegretario del Ministero del Turismo e dello Spettacolo, on. Luciano Rebulla, che ci ha fatto pervenire un telegramma con il rincrescimento per la sua assenza dovuta a improrogabili impegni di governo – per l’opera di sensibilizzazione e di promozione della nostra regione a Roma, luogo in avvengono le decisioni importanti. Noi, di fronte alla situazione ben diversa di altre regioni, ci siamo fatti forti e con l’appoggio del sottosegretario e con la nostra volontà siamo riusciti a a raggiungere questo obiettivo – credo veramente importante – che ha permesso di istituzionalizzare la nostra associazione e di mettere in atto queste iniziative culturali, tali per il loro contenuto solo in questi ultimi anni, dopo tanti anni di lavoro nella concertistica, con il Concorso e il Convegno, per i cui Atti non si riusciva a reperire fondi adeguati per promuoverne la pubblicazione. Prima dell’intervento ministeriale, il nostro ringraziamento più sentito – lo dico veramente di cuore – va a tutti gli Enti Locali: all’Amministrazione Comunale – nel 1982 era Sindaco Antonio Scarano – quando nacquero Concorso e Convegno, all’Amministrazione Provinciale di cui era Presidente Silvio Cumpeta, che nello stesso anno appoggiò con un importante intervento le due manifestazioni, alla Regione Friuli Venezia Giulia che con varie leggi, sia per la cultura che per il Concorso e il Convegno, ha sostenuto le nostre iniziative che si sono messe immediatamente in luce in campo internazionale: basti pensare che sin dal primo Concorso i partecipanti erano di tre continenti e provenivano da una ventina di stati ed ha avuto subito grandi risultati. Il Convegno di quest’anno – per fornire ulteriori informazioni su questi ultimi anni di attività – gode di nuovi sporsor, come la Cassa di Risparmio di Trieste che ha concesso un sostanzioso intervento per il Convegno e per il Concorso, e dell’operato di promozione dell’Assessore regionale sempre presente alle nostre iniziative, che ne ha permesso il rafforzamento. Questo IX Convegno, parallelo al X Concorso, ha visto per la prima volta l’attuazione di una traduzione simultanea in quattro lingue (italiano, inglese, francese e tedesco) e la presenza di 25 relatori di 17 paesi, i quali si sono confrontati sul tema “L’estetica musicale contemporanea e la pedagogia del violino”, alla luce anche delle nuove opere musicali edite di compositori contemporanei viventi, fra cui quelle del Concorso stesso. Nel 1983 – nel I Convegno di cui abbiamo qui gli Atti – è nata l’idea di promuovere una letteratura violinistica contemporanea da includere nelle successive edizioni del Concorso attraverso il brano d’obbligo scritto dal compositore Presidente della Giuria, oltre a quello d’obbligo di Lipizer tratto dalla “Tecnica superiore del violino” di difficoltà “ultrapaganiniana”, come è stata definita da alcuni dei più agguerriti concorrenti dell’Estremo Oriente. Come si vede, questo Concorso e soprattutto questo Convegno hanno promosso la cultura musicale per mezzo dello studio dei problemi inerenti il violino e l’apporto didattico e culturale dei più illustri docenti mondiali, attivi nei più prestigiosi conservatori, scuole e master-class internazionali. Questi Atti riportano la loro voce. Il primo Presidente, il M° Giulio Viozzi, rimane in questo testo con le sue idee, importanti per guidare il Concorso nei primi anni, rimangono Boris Goldstein, J.P. Bernede e altri ancora. Sono state raccolte le voci di nomi prestigiosissimi in campo internazionale, che ci hanno lasciato gli ultimi desiderata per la scuola violinistica, un testamento culturale, a cui si affiancano la vivacità dei dibattiti e delle relazioni. Al professor Principe, comunque, il compito di illustrare questo aspetto culturale e musicologico. Devo un grazie particolare, oltre che al Direttivo, ai collaboratori e ai dipendenti, al prof. dott. Gianni Drascek che ha curato con entusiasmo, competenza e spirito di totale volontariato questi Atti. I testi sono stati ricavati da registrazioni su nastro, anche in lingua originale tradotta dagli interpreti, cui va il mio ringraziamento. Pensiamo inoltre di poter presentare gli Atti successivi in lingua originale con traduzione italiana a fronte. Un fatto che ci ha fatto proseguire nel nostro operato è stato, sin dal 1983, l’alto Patrocinio del Presidente della Repubblica, il riconoscimento della Federazione Mondiale dei Concorsi Internazionali di Musica, che ha sempre visto con stima il nostro Concorso e il Convegno, gli stessi membri delle Giurie che hanno definito come originale invenzione degli organizzatori della Lipizer l’affiancamento al Concorso – esempio unico a dire dei giurati – di un Convegno parallelo. Il riconoscimento del Ministero della Pubblica Istruzione che ha dato il patrocinio al Convegno per la valenza degli studi annuali che vi si svolgono e inoltre ha concesso un riconoscimento importante per tutti i docenti di ogni ordine e grado: ad essi viene rilasciato una certificazione di frequenza valida al fine dell’aggiornamento. L’Associazione Lipizer non fa solo concertistica, non fa solo Concorso o Convegno, ma sta promuovendo l’istruzione musicale: non va dimenticato che la Scuola di Musica “Lipizer”, sita nella sede dell’Associazione in via don Giovanni Bosco, comprende vari corsi strumentali, di teoria musicale, di storia della musica, frequentati da un numero sempre crescente di studenti di ogni età. Non posso essere che soddisfatto a nome del Direttivo di tutti questi risultati positivi e spero di trovare anche in futuro il sostegno degli enti pubblici locali soprattutto, che sono stati importantissimi sul nascere della nostra associazione e che sono anche oggi determinanti in quanto l’intervento ministeriale, seppur cospicuo, non è sufficiente. Un ringraziamento alla Gioiosa Editrice che oggi doveva essere qui rappresentata dal dottor Gioiosa perché ha reso possibile l’edizione del primo volume di Atti, di cui ha promosso la divulgazione e l’inclusione nei cataloghi nazionali. Infine il sentito ringraziamento va alla figlia del Maestro, professoressa Elena Lipizer, che ha coadiuvato il lavoro del professor Drascek, collaborando con lui in modo fondamentale. E’ Lei che ha accolto l’invito degli ex-allievi del Maestro di creare l’Associazione che porta il nome di Lipizer; è attiva in essa nonostante debba portare avanti il lavoro non facile nella scuola di musica. Questa mattina, in un incontro avuto con il professor Principe – mi commuove dirlo – abbiamo gettato le basi di un futuro importantissimo lavoro: la biografia di Rodolfo Lipizer. La famiglia Lipizer fornirà tutta la documentazione necessaria affinché quest’opera possa essere pubblicata in tempi brevi, un’opera che parli del Maestro ma anche di Gorizia, la città in cui ha vissuto e operato. Per l’Associazione Lipizer questo è un primo traguardo editoriale che riempie di gioia: è una giornata felice ma anche un punto di partenza per future e più ambite realizzazioni editoriali. Nel 1990 l’Associazione Culturale Rodolfo Lipizer ha ottenuto un grande riconoscimento dal Ministero per Beni Culturali e Ambientali: l’inclusione nella tabella nazionale degli enti che svolgono servizi di rilevante valore culturale. I Convegni hanno promosso la cultura musicale per mezzo dello studio dei problemi inerenti il violino e l’apporto didattico e culturale dei più illustri docenti mondiali, attivi nei più prestigiosi conservatori, scuole e master-classes internazionali. Questi Atti riportano la loro voce. Presidente dell’Associazione prof. Lorenzo Qualli PROF. GIANNI DRASCEK – Gli Atti dei Convegni Internazionali sul violino, organizzati dall’Associazione Culturale “M° Rodolfo Lipizer”, sono una tangibile testimonianza della vitalità culturale e pedagogica dell’odierno mondo musicale. Ho affrontato questo lavoro di coordinamento, sistemazione, collazione e revisione dei testi in un progressivo coinvolgimento e con partecipe puntiglio. Ho rispettato il “clima linguistico” di ogni singolo intervento per non spersonalizzarlo e omologarlo, ma conservarne invece l’immediatezza e, in taluni casi, il pathos. Durante i primi cinque Convegni sono stati affrontati i seguenti temi: 1983 – Problemi di programmazione musicale e organizzazione dei Concorsi di violino. 1984 – Scuole violinistiche a confronto sui problemi tecnico interpretativi ed espressivi. 1985 – Violinisti e pedagoghi poco noti ma importanti per l’opera svolta. 1986 – La didattica del vibrato sul violino e viola proposta dall’opera pedagogica di R. Lipizer paragonata alle soluzioni date al problema da altri insigni violinisti. 1987 – La tecnica violinistica quale fondamento per l’interpretazione musicale. Sono trattati, dunque, aspetti fondamentali del campo violinistico, come la didattica, la metodologia, l’interpretazione ma anche tematiche musicali più generali, quali la critica, l’estetica, la biografia e i problemi reali del lavoro, spesso oscuro e poco riconosciuto, degli insegnanti. I relatori sono di per sé la garanzia della tensione intellettuale presente in ogni intervento, sia esso una relazione sistematica oppure un’esposizione in apparenza asistematica ma in realtà pregna di idee, di indicazioni e proposte originali, percorsa comunque da un’intensità dialettica mai ovvia. Non mancano gli spunti polemici contro una serpeggiante incomprensione dei problemi musicali da parte dell’establishment, preoccupato spesso più della quantità che della qualità delle proprie operazioni culturali. La pubblicazione si rivolge ad un pubblico ampio, e specialistico. Ogni persona culturalmente curiosa vi potrà ritrovare notizie poco note, punti di vista suggestivi, chiarificazioni illuminanti, una visione globale della musica, derivanti dall’esperienza, dalla conoscenza e dalla professionalità dei violinisti e dei musicisti intervenuti nei dibattiti. Gli stessi si rivolgono agli specialisti, agli addetti ai lavori, ai docenti e agli studenti con acume e rigore metodologico. La lettura degli Atti è un itinerario culturale sostenuto dal dialogo tra relatori e “pubblico”, talvolta in antitesi, sempre sorretti però dal comune interesse per il progresso musicale. Coloro che da queste pagine dialogano con il lettore, provengono da tutte le parti del mondo. L’espressione villaggio globale allude alla fitta rete di interconnessioni, positive e negative, presenti nella vita contemporanea: le interconnessioni attuate dalla musica non possono essere che positive, in quanto quest’arte universale arricchisce e accomuna. In tempi in cui le pubblicazioni sovrabbondano – soprattutto per quanto riguarda una certa omogeneità degli argomenti – una che tratti di musica in modo non univoco perché molteplici sono i punti di vista, può suscitare interesse in tutti coloro che, per professione o per passione, fanno della musica parte della loro quotidianità. Curatore degli Atti prof. Gianni Drascek   PROF. QUIRINO PRINCIPE – Devo dire che quando mi è toccato, e mi toccherà in futuro, il compito di presentare un volume di Atti, mi troverò sempre di fronte a una profonda perplessità: è un segno della fase che noi attraversiamo in questa fine di secolo e millennio, della nostra civiltà carica di storia e quindi storicizzata, piena di memorie e di sedimentazioni a più strati soprattutto, l’abbondanza di discorsi sui discorsi, i discorsi sui discorsi sui fatti e le riflessioni su questi discorsi di secondo, di terzo o di quarto grado? Già di per sé i Convegni sull’insegnamento del violino, sulle scuole violinistiche, sui Concorsi violinistici, sono dei discorsi di secondo grado. Si potrebbe dire che la stessa musica è un discorso su qualcosa, in particolare poi un volume di Atti, una registrazione di terzo grado di questa attività. Questo potrebbe sembrare un motivo per allontanare il lettore dalla realtà che viene descritta… la storia della critica, la storia della storia della critica e quanto più si sale di grado diventa sempre più un discorso per specialisti. E la stessa rosa degli specialisti si restringe sempre più. Capita spesso, magari per fondatissimi motivi, che un volume di Atti, che viene mandato in omaggio o che rimane ai partecipanti ad un Convegno, sia considerato quasi un non libro, un libro che serve come consultazione, come catalogo, come repertorio, che serve indubbiamente a tante cose e che rivela subito la sua utilità, che si estrae dallo scaffale molto spesso ma che non si legge mai di seguito, come si legge un romanzo, un saggio storico o un pamphlet politico. Questo è umano, ma in realtà è un’operazione errata. Proviamo quindi a leggere un volume di questo genere di seguito. A volte capitano delle circostanze in cui si abbia del tempo, si trovi un tempo apparentemente vuoto, lo si riempia, per esempio, durante un viaggio in treno, e allora molte scoperte si concretano e molte realtà nascoste vengono alla luce. In primo luogo c’è alle spalle di un libro del genere un lavoro prezioso sempre sottovalutato, spesso misconosciuto, quasi mai citato, che è quello del curatore. Abbiamo parlato di una fase di civiltà che noi attraversiamo, una fase anche di inflazione dal punto di vista pubblicistico, fase nella quale noi entriamo in una libreria e proviamo quasi un moto di nausea e di disgusto perché ci accorgiamo che la quantità di ciò che è accatastato sugli scaffali fa perdere il significato di ciascuna delle unità che ci troviamo di fronte. Il professor Drascek parlava di una tendenza alla omologazione, e questo è inevitabile per tutti i generi di letteratura e di pubblicistica che gli editori pubblicano. Un romanzo d’avventure vale tutti gli altri, un saggio di economia o un saggio politico tende ad omologarsi agli altri, rendendo inutili gli altri o se stesso. E allora, ecco che forse una registrazione fedele di ciò che è stato detto e fatto in un’occasione anche di combattimento o scontro polemico – perché c’è molta polemica in questo libro, a volte un insieme di sottintesi che meriterebbero di essere sviluppati – acquista una dimensione di unicità che lo rende meritevole di quella famosa lettura continuata che spesso non si fa. D’altra parte il fatto che un libro venga aperto, letto, acquisito per quello che è con molto interesse e poi non concluso nella lettura, è condiviso da molti altri libri. Sono profondamente convinto che Inshallah di Oriana Fallaci o Il pendolo di Foucault di Umberto Eco siano stati letti da cima a fondo da una minoranza tra quelli che li hanno acquistati, per vari motivi, diversi da quelli che potrebbero essere quelli che riguardano questo libro, che invito a leggere e che ho letto con grande piacere e con grande passione da cima a fondo. Questo è grande merito del curatore che, come il traduttore, è una figura che spesso non compare nelle recensioni, a volte viene nominato solo nell’occhiello o comunque non viene giudicato per ciò che è il suo lavoro, mentre spesso è il vero autore del libro come oggetto, come risultato e conclusione. Se tutti i curatori e tutti i traduttori scioperassero, l’editoria sarebbe ridotta al dieci per cento. Forse – mi direte – non sarebbe un gran male, date le premesse, ma sono convinto che la qualità che rimarrebbe non sarebbe la migliore. Perciò, parlare di questo libro non è un discorso che si sbriga in pochi minuti. Non si tratta affatto di un non libro. Vorrei proporre come leggere un libro del genere. Esiste una lettura orizzontale: ci sono stati degli eventi, i Concorsi, i Convegni indetti dall’Associazione Lipizer, poi c’è stata una cronaca di questi eventi, cronaca che tende ormai a diventare storia cittadina, storia della cultura goriziana, e infine c’è la registrazione di questa cronaca che diventa il libro. Probabilmente questo è un metodo possibile ma non è il più giusto, è un metodo abbastanza arido come risultati. Esiste un metodo diverso, una lettura verticale, un metodo di scavo in profondità, che segue la tecnica dello sfogliare il carciofo, dal punto di vista metaforico molto importante perché – come è noto – ha a che fare con la politica cavouriana o di altri geniali statisti. Esiste il libro che noi ci troviamo di fronte: partiamo pure dall’esterno, dall’ultimo risultato, sappiamo che in questo libro si nasconde una cronaca di avvenimenti che hanno avuto a che fare, alle spalle dei Convegni, con dei Concorsi, con delle durissime prove e al di sopra di queste ecco che noi non troviamo più la carta, un prodotto editoriale con il suo eventuale prezzo, con il numero di pagine, ecc., bensì degli eventi, dei momenti irripetibili nella vita di molti giovani che hanno scelto, non dico la più difficile delle strade ma certo una delle più difficili, delle più ingrate, che per di più sono stati consapevoli al momento della loro scelta delle poche gratificazioni, la grande difficoltà che essi avrebbero incontrato, una certa sottovalutazione un po’ benevola e paternalistica da parte dell’ “altra” realtà. L’arte in genere o è trascurata o è perseguitata o è protetta, e il fatto che sia perseguitata non è forse la sorte peggiore perché indica che viene riconosciuta come una forza. Al di sotto di tutto questo c’è la profonda sofferenza quotidiana, la realtà umana di questi giovani che per presentarsi al Concorso così valorosamente hanno dedicato e sacrificato le loro giornate, non hanno vissuto la loro giovinezza. Il giovane che si dedica alla musica non vive come un giovane ma come un monaco, un eremita, un fachiro, perché le sofferenze sono inenarrabili. Da questo nucleo umano, facendo il cammino a ritroso, noi vediamo nascere gli eventi, la cronaca degli eventi e finalmente il libro. Se facciamo questa considerazione, se sappiamo che in questo cumulo di carta stampata c’è la registrazione di un nucleo che ha dato i suoi frutti, allora cominciamo ad avere maggiore rispetto per il libro o per libri di questo genere. Il frutto finale di questo nucleo di sofferenza che cresce e diventa libro o questo nostro incontro, che è molto bello e già è stato in queste prime battute molto autentico – ce ne siamo accorti tutti, autentico da entrambe le parti, ammesso che si possa parlare di parti contendenti – ebbene, il frutto di tutto questo significa cultura nel vero senso della parola, come modo di vivere, di combattere, di litigare quando è necessario. Cultura goriziana, cultura di questa città che è indubbiamente marginale dal punto di vista geografico, città di cui spesso, nello stato che la comprende, non ci si rende conto, non la si conosce, non la si sa collocare. Allora vengono in mente molte considerazioni, tante troppe considerazioni, che abbiamo fatto nel corso della nostra vita, che io personalmente come goriziano, “Goriziano in esilio”, in partibus infidelium, ho fatto durante molteplici esperienze, forse più di chi ha avuto il merito di rimanere e vivere a Gorizia. Tanto per cominciare, soltanto vivendo fuori Gorizia ci si rende conto dell’importanza che ha avuto ed ha Rodolfo Lipizer, la sua opera didattica. Ci si rende conto che intanto i volumi didattici di Lipizer sono considerati materia preziosa, spesso difficilmente accessibile, quindi di grado superiore, cosa da non affrontarsi con approssimazione, non soltanto nelle grandi Scuole di musica italiane – purtroppo in Italia ci sono soltanto i conservatori o magari l’Accademia di Fiesole – ma anche nelle grandi istituzioni didattiche di musica straniere, soprattutto dell’area austro-tedesca, mitteleuropea. Già il suo cognome lo dice, un cognome che ispira rapporti interzonali da tutti i pori: Lipizer ci ricorda Lipiza, i cavalli lipizani, il Rosencavalier, Fritz von Herzmanowsky Orlando e il suo strano impero che va dalla Carinzia alla Dalmazia, passando attraverso Gradisca, capitale dell’impero: in quel delizioso romanzo ancora inedito in Italia che è “La mascherata dei geni” Lipizer potrebbe essere in Musikdirektor ideale del singolare impero del bizzarro scrittore austro-italiano. Ci si rende conto anche dell’importanza crescente, acquisita e grandeggiante in Italia e fuori d’Italia del Concorso Lipizer e la considerazione di cui ormai esso gode. Direi che purtroppo, in un mondo che è fatto di rapporti di forza, l’aggettivo più lusinghiero del Concorso Lipizer, in questi casi, è “temibile”, come dei grandi, duri Concorsi di cui si ha giustamente paura, come del resto possiamo leggere nelle pagine di questo libro a proposito del Convegno del 1987, quando con parole piacevolmente stupite il professor Frischenschlager dice: “Credevo di arrivare a Gorizia e di trovare un Concorso tranquillo: invece ho trovato un Concorso del livello del Ciaikowski o del Wieniawski”. Qualcosa insomma di temibile e monumentale che intimorisce. Di questo, una città come Gorizia, piccola città di provincia, è capace. Non a caso ne è capace, perché noi abbiamo ascoltato l’inizio di questa nostra conversazione che cosa “bolle in pentola”, che tipo di problemi e contrasti sono emergenti come bolle. Abbiamo sentito anche momenti di grande e difficilmente frenabile, ma vittoriosamente frenata, commozione. Quando io mi accorgo che ci si sa commuovere, dopo avere lavorato per anni con incredibile passione. Evidentemente siamo di fronte ad una realtà molto diversa da quella metropolitana. Purtroppo l’Italia è un paese in crisi, finanziaria ma non economica, un paese di ricchi e di vergognosamente ricchi, un paese disastrato dal punto di vista finanziario come la Francia nel 1788 – speriamo che questo non indichi possibili analogie in prospettiva e in sviluppo! – Ci sono due Italie, e non sono affatto il nord e il sud, il nord cattivo e il sud buono, oppure viceversa. C’è l’Italia metropolitana, quella delle grandi città che per diabolici motivi non siamo riusciti a rendere “cervello e cuore” ma ormai soltanto “lavandino e sacca dei rifiuti” di tutto ciò che è peggiore. Lo dico senza enfasi o astio, ma con profondo dolore. C’è poi l’Italia incredibile e sorprendente, che sorprende a Gorizia come – cito luoghi incredibili dove sono stato per lavorare in campo musicale – Città di Castello, Avellino, San Giorgio al Sannio. Questa è l’Italia che ci fa dire: “Allora siamo apposto, tutto va bene, quello che dicono i giornali non è vero, è un brutto sogno, è un incubo!”. Poi torniamo nella realtà metropolitana e ci troviamo di fronte all’incubo. Esattamente un settimana fa, oggi è martedì, mi trovavo a Milano nella Sala Gialla della Scala di Milano ad un incontro per la convenzione tra la Regione Lombardia e La Scala. C’erano gli omologhi degli illustri rappresentanti dell’Amministrazione pubblica che abbiamo qui presenti, Assessori ai Beni Culturali della Regione, del Comune, della Provincia e di altre province lombarde. L’impressione che se ricavava era quella che si può provare vedendo un film fantapolitico, purtroppo sempre meno “fanta”, un film su intrighi terribili, su inconoscibili segreti che non vengono svelati, un atteggiamento di muro contro muro, di muri di gomma – visto che l’espressione è abbastanza di moda – . Qui invece siamo di fronte a un discorso autentico, reale, senza eufemismi, tutto ciò che abbiamo sentito prima: così si amministrano le città. Magari si amministrano male. Io non credo che Gorizia sia amministrata male, anzi penso che tutto sommato sia amministrata bene. Magari si amministra male, ma con autenticità, dichiarandosi, confessandosi, discutendo, non trincerandosi nel silenzio, nella reticenza di fronte a qualsiasi domanda che sia, appena appena, un po’ imbarazzante. C’è in Italia una realtà che assomiglia tanto a Gorizia e che ci invoglia a continuare, ad andare avanti, a parlare, a stare qui: altrimenti non varrebbe la pena di parlare di cose del genere di fronte ad altri tipi di amministratori e di realtà, ormai irrecuperabile, non più salvabile. Questo andava detto, questo ho voluto dire. Ma dobbiamo ritornare al libro, perché di esso ci si deve occupare. Esiste la realtà di cui il libro è la registrazione. Realtà da leggere da cima a fondo, realtà che il libro sottintende e da cui è nato. Ci sono le cronache fedeli – sappiamo quanto lavoro rendere queste cronache libro sia costato al curatore – insisto sulla figura misconosciuta ed eroica del curatore, in questo caso il professor Drascek, inutile dirlo – cronache di cinque Convegni, i primi rispetto alla serie che sta continuando, i cui temi indicano un singolare itinerario. Si è partiti da un Convegno (1983) che era quasi un’autologia, un discorso su se stesso, un primo passo concreto ed empirico, secondo lo stile goriziano, cioè “i problemi di programmazione e di organizzazione dei Concorsi di violino”, un Convegno che rappresentava la massima modestia – non nel senso untuoso della parola – nei confronti di chi aveva saputo creare quella realtà, che è l’annuale Concorso Lipizer ormai radicato nella cultura musicale europea e il discutere su come programmarlo, tema che potrebbe sembrare non soltanto al profano ma anche al musicista terribilmente arido. Poi aprendo le pagine di questo libro, vediamo che le polemiche, le effusioni di un esprit, forse perduto per certi aspetti in altri settori, incominciano già ad abbondare in questo primo Convegno. Il secondo Convegno (1984) entra in un settore dei carattere storico-estetico affrontando le “scuole violinistiche”. Anche questo può sembrare un capitolo dell’Enciclopedia della Musica della UTET oppure il capitolo di un cattivo manuale di storia della musica o pessimo come quelli in uso nei Conservatori italiani, quelli che seguono le tesi che verranno portate all’esame non l’itinerario storico-critico. In realtà l’Italia è un paese, soprattutto se non esclusivamente, di beni culturali, la sua più grande ricchezza non nel senso traslato e idealizzato, di cui l’intellettuale che tutto sommato ha lo stipendio e non ha problemi particolari – beato lui! – parla di solito. No, nel senso letterale di ricchezza fatta di moneta e di beni materiali. Ebbene, in Italia le scuole violinistiche come le scuole pianistiche, in particolare le prime, in quanto è stata la didattica del violino, la fondazione di uno stile, di un modo di suonare e di intendere l’uso e l’impiego di questo strumento, le formazioni orchestrali cameristiche che sono nate intorno agli strumenti ad arco, sono una gloria della cultura musicale italiana, laddove invece gli strumenti a tastiera, malgrado la presenza di grandissimi inventori, per esempio Domenico Scarlatti o lo stesso Gian Battista Viotti, pianista oltre che grande violinista, non sono propriamente un vanto italiano. Appartiene semmai ad altre aree culturali. Queste distinzioni nella prospettiva di un’Europa che si spera, ahimè, sempre più unita, si vanificano. Di fronte ad una riflessione storica non possiamo dimenticare che le scuole violinistiche italiane sono dei beni culturali, rappresentano un filo rosso che arriva fino a noi. Che questo filo rosso sia spezzato e che uno dei più illustri relatori di questo Convegno dica che l’Italia è stata il “paradiso” delle scuole violinistiche e oggi è un “rudere” – frase un po’ forte ma che ci fa riflettere – non soltanto non cambia il senso di questo discorso ma lo rafforza. Il terzo Convegno (1985), dedicato a “pedagoghi poco noti ma importanti per l’opera svolta”, entra in un campo sempre più profondo e sempre più concreto, per noi molto dolente dell’educazione musicale, delle scuole di musica, dei conservatori. Con il quarto e quinto Convegno, con cui si conclude la cronaca rappresentata da questo libro, si sale al livello inventivo ed estetico. Il tema del quarto (1986) è terribile, sembra respingere i profani e gli addetti ai lavori e anche i musicisti, e riguarda “la didattica del vibrato sul violino e viola proposta dall’opera pedagogica di R.Lipizer, paragonata alle soluzioni date al problema da altri insigni violinisti”: un discorso assolutamente tecnico e invece ci accorgiamo, leggendo questo libro, che è fra le parti più appassionanti e più simili ad un dibattito politico. Apro una nota in calce. Diceva Orazio, parlando dei poeti e dei letterati “vatum irritabile genus”, che potrebbe essere variato in “musicorum irritabile genus”: non c’è gente più astiosa e alla fin fine più antipatica, nel senso etimologico della parola, dei musicisti. “Antipatica” nel senso che c’è un “anti pathos”, un nascere e svilupparsi del sentimento contrario. Se ne parlava questa mattina con la Signora Lipizer e con il professor Qualli. E’ difficile trovare un musicista militante, in particolare uno strumentista, che parli bene dei suoi colleghi nell’esercizio di quello strumento. Se per caso uno dice: “Ho sentito – non parliamo di pianisti o di violinisti ma, per esempio, di oboisti – il concerto del tale oboista”, “Ah, sì, com’era?”, e comincia già a sospettare di fronte a questa domanda inquisitoria, “Che cosa dovrò rispondere!”, e dice “Buono… ”, in un modo abbastanza neutro. “Doveva essere un miracolo, evidentemente, perché di solito quello suona da cane!”. Le metafore che più spesso vengono applicate nel linguaggio dei musicisti che parlano dei loro colleghi sono una metafora zoologica “cane” e una di tipo artigianal-produttivo “scarpa” : quello è un cane, quella è una scarpa. Ovviamente il discorso è reciproco, perché se si parla con colui che è stato definito in questo modo, definirà l’altro con gli stessi epiteti. Questo può anche essere piacevole, interessante, divertente ma è anche molto demoralizzante e spesso fa perdere di vista i punti di orientamento. Verrebbe voglia di non emettere giudizi. Tornando al violino, per quanto riguarda le dicerie dell’un violinista nei confronti dell’altro – i violinisti poi, come tutti i musicisti, sono delle persone deliziose e bravissime, che non fanno male ad una mosca… lasciamoli almeno parlare! -, ma nell’ambito del parlato c’è sempre un atteggiamento crudelmente conflittuale, non volgarmente, perché in esso c’è qualcosa di tragico. Uno dei campi, in cui spesso si accendono le lotte, è il vibrato. Io ho assistito a molti esami finali in conservatorio e ad essi partecipavano spesso persone illustri: una è presente nel libro, una donna deliziosa ma temuta giustamente per la sua severità, Margit Spirk del Conservatorio di Bolzano. Ricordo, e sono nomi che ci riempiono di commozione, Elisa Pegreffi – moglie e vedova di Paolo Borciani – secondo violino del “Quartetto Italiano”. Sì, certo, persone interessantissime, ma quando si parlava di vibrato! “Ma, come? Il suo insegnante le ha insegnato così il vibrato?”. Naturalmente l’anno dopo valeva il discorso inverso. Io non sono violinista, sono analfabeta in questo campo, sono uno che legge partiture, che ascolta, ma devo dire che il vibrato è un elemento essenziale e fondamentale. I punti strategici dell’interpretazione, dal punto di vista espressivo ed estetico e dei significati, vengono giocati proprio sull’uso del vibrato. Questo Convegno così apparentemente tecnicistico, doveva essere e lo è stato, un dei più caldi e combattuti. E finalmente il quinto Convegno (1987) qui registrato, “la tecnica violinistica quale fondamento per l’interpretazione musicale”: siamo di fronte ad un grande problema, poetico e individualizzato. Si esce dall’eredità didattica per affidare tutto alla responsabilità dell’interprete. Siamo di fronte al famoso rapporto che fa impazzire gli studenti di conservatorio e avvelena gli animi nei rapporti tra docenti, rapporto tra tecnica e “interpretazione”, tra tecnica e musica, altro argomento che viene spesso trattato in modo aforistico e lapidario in queste pagine. Penso sia stato Zafred ad affrontare il problema se nell’opera vengano prima la musica o le parole e viceversa, in questo caso prima la musica e poi la tecnica. Chi non ha figli che studiano in una scuola di musica o in un conservatorio, non si rende conto umanamente di questi problemi. Sappiamo benissimo che i “poveri giovani” che commettono l’errore fondamentale di studiare musica, benedetto errore!, per fortuna ce se sono tanti che lo commettono, altrimenti non ci sarebbero più musicisti, i giovani che seguono questo richiamo all’abnegazione – altro che il giovane ricco del racconto evangelico, altro che San Francesco, questo sì che è un cedere tutto per dedicarsi ad una vita di sacrificio perenne – costoro saranno poi tormentati da questa specie di schiacciasassi che è questo dilemma: fedeltà filologica o libertà interpretativa? Il suonare in stile oppure il suonare al di là dello stile voluto dalla prassi interpretativa dell’epoca in cui la composizione è stata composta? O, più banalmente, soddisfare le tendenze di questo o di quel docente? Argomenti tra i più scottanti. Ne viene fuori quello che il nostro curatore, Gianni Drascek, ha chiamato “un itinerario culturale e un dialogo tra relatori e pubblico”, dialogo spesso non non pertinente ma impertinente, spesso giustamente irrispettoso, che ha visto gli uni e gli altri, i contendenti di entrambi i campi, accumunati dall’ “interesse per la musica”. Finché si combatte per qualcosa di importante, di degno, si combatte sempre bene e si è dalla parte giusta, anche se schierati in campi diversi. Alla fine c’è un passo nell’introduzione del curatore che merita un’osservazione. Prima ho detto “interesse per la musica”, ma il testo dice esattamente per “il progresso musicale”. La categoria di progresso è una categoria di carattere storicistico applicata a qualcosa di atemporale come un’arte, la musica. Esiste un progresso nella musica? Esiste un progresso nel Cristianesimo o nella pedagogia? Proviamo a rispondere di sì. L’idea di progresso non nasce come un’idea dialettica, ma come una concezione rettilinea; poi la concezione è stata corretta dalla filosofia mediante la dialettica. Anche una linea spezzata, dei ritorni, delle cadute possono essere superati, “aufgehoben” diceva Hegel , e assunti o riassunti in un sostanziale progresso, che è tale proprio perché si combatte tra la tesi e l’antitesi, ma che comunque c’è. Allora, per esempio, se c’è un progresso nel Cristianesimo, dovremmo dire che l’attuale pontefice – persona per la quale ho il massimo rispetto – rappresenta un progresso rispetto a San Pietro, perché l’ultimo papa della storia è migliore del “primo”: tutti si accorgono della insensatezza di questa frase. Esiste un progresso nella pedagogia, come dicevano negli anni ’70 alcune scuole pedagogiche italiane: devo dire, senza un briciolo di ironia, che allora Lamberto Borghi o Aldo Visalberghi sono più importanti di Socrate perché vengono “dopo”. Ciò rivela la sua vanità e inanità. C’è allora un progresso nella musica? Ciò significa che J.S.Bach è stato il precursore di Luciano Berio, compositore che merita il massimo rispetto, e che comunque Berio rappresenta un progresso rispetto a Bach? Evidentemente, no. Eliminata questa possibilità di interpretazione, se c’è un progresso nella musica, in che cosa esso consiste? Primo. Può consistere in uno sviluppo della tecnica nei due significati: tecnica dal punto di vista materiale e artigianale, della costruzione degli strumenti, il perfezionamento degli strumenti musicali. Oggi un cornista con un corno a pistoni si trova infinitamente meglio di coloro che suonavano il corno nelle orchestre al tempo di Mozart e dovevano lavorare con il pugno, perché avevano a che fare con il corno naturale. Il flauto traverso rappresenta un immenso progresso tecnico rispetto al flauto dolce. Il pianoforte a martelli rappresenta un progresso rispetto alle possibilità offerte da un clavicordo o dal clavicembalo. Detto questo, esistono delle categorie estetiche nelle quali abbiamo bisogno del flauto dolce e non di quello traverso, abbiamo bisogno del clavicembalo. Non possiamo suonare le sonate di Paradisi con il pianoforte. Oggi c’è un po’ la mania degli strumenti originali, una forma di ipercorrezione e di eccesso. La tecnica, dunque, è stata in evoluzione e in progresso. Il discorso per cui è bene suonare certe musiche obbligatoriamente con gli strumenti originali, merita una risposta negativa, perché può essere interessante suonare con gli strumenti originali in composizioni per piccolo organico, ma certamente Beethoven “avrebbe sognato” le orchestre di oggi e anche con il loro grande organico. “Schubert va eseguito solo sul forte-piano” – possibilmente datato 1825 – : egli sarebbe stato felice invece se avesse avuto uno Stanwey costruito degli anni ’30, anni in cui si fecero i migliori Stanway, ma anche un pianoforte degli anni ’70 e ’80. Non c’è un progresso tecnico in altro senso, ed è il progresso didattico, nella capacità di suonare, che è quell’aspetto del “progresso musicale” di cui è stato protagonista Rodolfo Lipizer. Non si può dire certo che Lipizer rappresenta un progresso rispetto a Carl Flesch, questo grandissimo didatta che però considerava irrealizzabili certe procedure e irraggiungibili certi effetti che Lipizer, proprio proponendo certi esercizi diabolici ma produttivi e condotti con intelligenza e lungimiranza, riesce poi a realizzare. Né si può dire che Lipizer o Flesch siano un progresso rispetto a Paganini. Tutto questo non ha nessun significato in quanto stiamo parlando di un’attività artistica, di qualcosa che non è sottoposta ad una visione rettilinea del tempo ma ad una visione circolare, in cui tutto ritorna ad avere il significato perenne che ha sempre avuto, in cui non ci sono scarti o superamenti o eliminazioni ma alternative radiali, tanti punti sulla circonferenza: parto dal centro di un cerchio e decido di andare lungo un raggio verso un determinato punto o verso un altro punto. Non c’è un superamento rettilineo, un segmento dopo l’altro e gli altri vengono scartati e piombano nel nulla. Questa visione circolare delle cose è acquisita anche dalla cosmologia, la quale ci ha insegnato che l’universo non è finito come un cubo, come questa stanza, e neppure infinito come la cosa che uno vede quando chiude gli occhi e dice “infinito” e non sa bene che cosa sia, perché infinito vuol dire tra l’altro indefinito e quindi non definibile, ma è un infinito chiuso. E’ dovere della nostra cultura incominciare a pensare in modo circolare e non in modo rettilineo, cioè a pensare in modo perfetto e non imperfetto. E poi c’è un terzo tipo di progresso nel quale io, che non sono storicista, credo ed è il progresso sociale, il progresso dell’organizzazione delle realtà sociali, riferito alla fruibilità dei beni culturali. E’ progresso tenere aperti i musei; è progresso obbligare i custodi ad essere più corretti con il pubblico; è progresso obbligare i direttori di Conservatorio ad esservi presenti, visto che noi contribuenti li paghiamo; è progresso esigere che, quando ci sono dei Concorsi per i giovani disgraziati che hanno scelto la carriera del musicista, ci sia almeno un minimo di giustizia e non ci siano delle gratifiche precostituite e prefissate in base non già al merito ma in base al privilegio o al favore o al clientelismo. Questo significa “progresso musicale” e significa anche lo spostare l’attenzione. Non voglio parteggiare né per il professor Qualli, ammesso che sia un parteggiare, né per i nostri squisiti e deliziosi amministratori pubblici che hanno parlato: ma voglio parteggiare per delle scelte in prospettiva. Quanto è stato detto è vero, occorre tener conto della realtà, ma è anche vero che in prospettiva conviene ricostituire una scala di priorità, ideali e sostanziali e non transeunti, da tenere come punto fermo. Certo, fino a quando in un contesto sociale come quello italiano, vuoi il musicista, vuoi l’operoso accademico, vuoi il geniale scrittore, vuoi il saggista intelligente e coraggioso saranno considerati “meno” di un alto ufficiale, di un qualsiasi corpo separato di una qualsiasi arma, nella scala di valori, allora… Il secondo è senz’altro una persona dinanzi alla quale bisogna mettersi sull’attenti. Se passiamo davanti ad una caserma… degli ussari o dei gendarmi di Nicola II e in quel momento esce un personaggio importantissimo, gli ussari che sono di guardia, ci bloccano e noi non possiamo passare perché esce questo personaggio! Sono piccole cose, ma significative. Se noi camminiamo vicino ad un Conservatorio, non è mai successo che esce il celebre violinista, non so Paolo Borciani, e allora degli ussari ci bloccano perché esce Paolo Borciani! Oppure a Vienna Walter Schneidehan! In questo, tutto il mondo è paese. Forse tra le persone che rendono importante e prestigioso un paese, ci sono anche coloro che si dedicano a produrre beni culturali e i musicisti sono in primissimo luogo tra questi. Un po’ di astuzia, tra l’altro, e di lungimiranza storica! Alcune arti hanno tenuto il posto in epoche diverse. Nel XVI secolo in Italia il primo posto lo tenevano le arti del disegno, della figura, la pittura, l’architettura, ecc. Viviamo in un’epoca in cui, occasionalmente e casualmente, fra le arti la musica è quella che trova la maggiore corrispondenza tra il pubblico, quella che ha soppiantato le altre nel primato del favore e della considerazione. Teniamo conto anche di questo. La musica è un’arte demoniaca, le altre arti non lo sono almeno a questo livello, è un’arte cattiva, aggressiva, pericolosa per lo stato. Rendiamoci conto di questo e allora lo stato deve tener conto di questa realtà e deve cercare di esorcizzarla, di mitridatizzarla, cercando di evitare che diventi eversiva. E se domani ci fosse una rivoluzione di musicisti – non ci credo naturalmente – in armi perché non c’è un sufficiente progresso nei rapporti? Chiedo scusa per questa visione fantastorica. Vorrei dire, infine, – se ne parlava con la Signora Lipizer e il professor Qualli – quanto sia stata bella, insolita, originale e rara la proposta suggerita in occasione del terzo Concorso da Angelo Stefanato, grande e notissimo solista di violino, che il presidente della Giuria del Concorso, compositore italiano scelto tra i più interessanti esistenti in Italia, fosse l’autore di un pezzo di nuova produzione, di un bene culturale prodotto ex novo, che diventasse uno dei pezzi d’obbligo del Concorso successivo di due anni. Questo è un esempio di progresso in musica, cioè il fatto che la realtà didattica e valutativa si leghi al momento produttivo e creativo. Chi sono stati questi compositori italiani? Appartengono a scuole e tendenze diverse. Accanto a quelli tonali, tradizionali come Giulio Viozzi e per certi versi Chailly, altri che soprattutto in passato hanno spaventato la critica come Riccardo Malipiero che è stato il primo diffusore e pioniere della serialità, della dodecafonia, in Italia e proprio per questo vituperato ancora dopo la Seconda guerra mondiale, non parliamo di prima e durante la guerra dalla solita consorteria fascista di Porrino, Pannain, purtroppo Lualdi e così via, ma anche dopo. O compositori di posizione intermedio-marginale, come Hazon, marginale perché si pongono “al margine” del problema, o compositori variabili come Turchi. Risulta tra questi compositori una gamma estremamente interessante. Mi chiedo se sia previsto un allargamento dei compositori a quelli stranieri? Questo presenterebbe vantaggi e svantaggi. Il vantaggio sarebbe quello di internazionalizzare sempre più il Concorso Lipizer e l’Associazione, ciò che si muove intorno ad essa e la città di Gorizia. Lo svantaggio o perlomeno il non vantaggio sarebbe la negazione del vantaggio, che consiste nello stimolare soprattutto la creatività dei compositori italiani, che è una creatività considerata, tranne alcuni grandissimi nomi… più che altro risonanti, meno importante della creatività di altri. Esistono poi all’interno delle conversazioni avvenute nel corso del Convegni dei momenti di grande tensione. Ne riferisco soltanto alcuni. Per esempio, il celebre discorso che ebbe per protagonista Zafred e altri sui “panni sporchi” – questa mia chiacchierata ha lo scopo anche di stimolare i lettori a leggersi queste cose direttamente – è un discorso che chiama in causa l’attuale Presidente del Consiglio Giulio Andreotti, il quale – e non sarebbe stata la prima volta – si sarebbe reso protagonista di una frase quantomeno incauta. Ricordo che l’attuale Presidente, non musicista ma non gliene faccio una colpa, prese alcune volte delle posizioni in campo musicale emettendo dei giudizi di grande rilievo per la loro infelicità, per gli errori clamorosi che questi giudizi presentavano. In questa circostanza chi replicò fu un compositore ormai scomparso, purtroppo, il compositore triestino Mario Zafred, considerato già un “terribile vecchio” nella musica italiana, uomo irriducibile. Intorno a questa discussione, che nasceva da un piccolo problema musicale, si sviluppa una discussione a non finire che costituisce da sola un motivo di grande interesse in questo libro. Così come un altro grande motivo di interesse il discorso del famigerato quarto Convegno sul vibrato, argomento che sembrerebbe così tecnicistico: discussione che nasce tra diversi grandi didatti ma anche grandi conversatori, sul fatto che il vibrato non deve essere il frutto omogeneo e indifferenziato di una didattica a senso unico, ma deve essere interpretato non soltanto con estrema libertà da scuola a scuola, da docente a docente, ma addirittura da allievo ad allievo. Margit Spirk, scolara di Giannino Carpi – bello vedere in questo libro le linee di eredità delle scuole violinistiche – dice che lui insegnava a decidere a “lei” come eseguire il vibrato, con consapevolezza, magari qualcosa di completamente diverso da ciò che Carpi stesso le aveva insegnato. Un altro punto di estremo interesse storico e culturale, anche per gli specialisti e storici della musica, di questo libro è l’emergere di un discorso che io confesso non ho trovato da nessun’altra parte, in nessun manuale storico o rivista specializzata e che poteva emergere soltanto qui: il mettere a nudo e lo smontare, come fanno i bambini per vedere i fili di un dispositivo elettrico, certe linee storiche e pedagogiche di scuole violinistiche. Il costituirsi di un itinerario che svela quali siano state, veramente di fatto, le grandi scuole violinistiche europee. Per esempio, la linea che deriva da Abraham Jampolski e arriva a Vaclav Huml, oppure – tanto per ricordare la persona che grandeggia nel nostro discorso – la linea che ha ad un certo punto Rodolfo Lipizer come punto di riferimento e che deriva da uomini di altra generazione, vertiginosi per importanza, come Eusebius Mandiczewski e in particolare, per quanto riguarda una visione allargata della direzione d’orchestra, Farnz Schalk, che fu sostituto di Richard Strauss all’Opera di Vienna e che è una figura centrale nella storia della musica a Vienna nella prima metà del ‘900. Lipizer è stato anche direttore d’orchestra e lo è stato proprio perché grandissimo violinista e didatta di violino, uno che conosceva benissimo l’uso degli strumenti e il suonare. Ci sono molti direttori d’orchestra che non sanno suonare ma godono egualmente di grande prestigio! Qual è il futuro dei Convegni, di cui questo libro è prima e, mi auguro, soltanto una prima registrazione seguita da altre? Penso che, da indiscrezioni che sono state riferite dagli organizzatori stessi, ci si avvierà verso un ritorno di questi problemi, ossia l’itineraio che abbiamo descritto dal primo al quinto Convegno, da una visione tecnico-didattica ad una sempre più di tipo estetico-creativo-produttivo-interpretativo, è destinata a diventare circolare, cioè a far ritornare temi di diverso livello di modo che il cerchio si chiuda sempre meglio. E’ stato affrontato, per esempio quest’anno, un tema a dir poco affascinante, riguardante “l’estetica musicale contemporanea e la pedagogia del violino”. Se c’è oggi una crisi nella musica, non è certamente una crisi tecnica. Coloro che escono dai conservatori, persino da quelli italiani, sono in genere bravissimi, giovani perfettamente preparati che sanno eseguire musiche difficilissime come scrittura, in genere. L’aspetto didattico non è particolarmente manchevole. La vera povertà è nel senso di ciò che si fa. E’ – scusate la metafora – lo stesso motivo per cui noi ci domandiamo come mai in Italia una polizia così efficiente, una magistratura così preparata e così piena di spirito di sacrificio, non riescano a sconfiggere la mafia, la camorra e la ‘ndrangheta. Non è certamente una mancanza di buona volontà o un’inefficienza tecnica, anzi vale il contrario, ma è probabilmente il non avere mai meditato sul senso ultimo di quello che si fa. Non è difendere il bene contro il male, lo stato contro l’eversione, ma qualcosa di molto diverso, su cui avrei molte risposte drastiche da dare. Ma questa non è la sede. Allo stesso modo c’è da dire che nei conservatori di musica in particolare italiani, ma non soltanto, malgrado la maggiore o minore eccellenza del livello didattico, non si è mai capito quale sia il senso ultimo di ciò che si sta facendo: c’è una mancanza di meditazione filosofica ed estetica sulla musica. Il nostro secolo finisce terribilmente pragmatico, terribilmente empirico, e sotto l’aspetto della filosofia delle arti, della filosofia che medita sulle arti, spaventosamente anti-filosofico. Forse il motivo per cui il destino dei nostri giovani che studiano musica è così poco felice e tormentato, ha anche le sue radici in questo problema, cioè nella mancanza della comprensione e di un senso ultimo di ciò che si sta facendo. Penso che questo libro, attraverso queste discussioni, serva magnificamente a risvegliare l’interesse per la ricerca di questo senso ultimo. Quindi, leggetelo. Grazie. Musicologo prof. Quirino Principe
Agosto 16th, 2010